domenica 22 novembre 2015

Gli uomini e le donne sono uguali?

Come è possibile che, alle soglie del 2016, una donna di trentatré anni, debba ancora sentirsi in colpa per amare tanto il proprio lavoro?
Quando diventerà naturale, la dedizione di una donna alla professione che svolge?
Sono stata tirata su da una madre lavoratrice. Lavoratrice nel senso che da casa, si usciva alle 7.30 e si rientrava la sera a cena. Non è mai stata la madre ferma ai fornelli per più di quindici minuti, eppure, non ho mai avuto problemi alimentari ed ho, sempre, mangiato tutto il necessario. Sono stata in compagnia di mia nonna durante la maggior parte della mia infanzia, ho avuto molte baby sitter che ricordo con estremo affetto e non ho mai lasciato la scuola prima delle 4.30 fino a quando, questo è stato possibile, inclusi tre giorni la settimana delle scuole medie e, sapete una cosa? Mi sono divertita da morire e non ho mai, ripeto mai, dubitato della totale dedizione di mia madre a me come figlia e del suo incondizionato amore, perché anche nei giorni in cui la vedevo poco, il tempo che mi dedicava era di qualità altissima. Era come entrare in un mondo segreto fatto di simboli e intese solo nostre. 
Mia madre è una donna titanica. E' una fenice, forse una delle ultime rimaste. Non conto le volte che l'ho vista rinascere dalle ceneri dei suoi problemi. E' una donna che appassiona tutti quelli che la incontrano. Ammetto che, non è stato facile essere sua figlia. Mi correggo, non è facile essere sua figlia. Anche oggi che sono mamma e lei è nonna, non è facile percorrere la mia strada senza rischiare, ogni volta di percorrere le sue orme e inseguire le sue ombre. Oggi, posso capire la netta divisione tra la mia mamma e il suo essere donna. Come madre, a volte dimentica la sua modernità e mi confonde. Come donna, credetemi è tutto ciò che noi femmine vorremmo essere: bella, intelligente, perspicace, capace, estrosa, ma con i piedi ben piantati a terra e, soprattutto, indipendente, ma non nel senso teorico del termine, no. Mia madre è l'essenza dell'indipendenza, è la parola fatta persona. Ha precorso i tempi, negli anni del bigottismo spietato. A casa, innamorandosi e procreando con un uomo già reduce di un precedente matrimonio e padre di due figli. Ci ha convissuto, in un momento storico in cui se convivevi eri poco più di una puttana e dopo, lo ha anche lasciato. Della serie: bandite questa donna dalle chiese di tutta Europa. Eppure mi ha insegnato cosa sia la famiglia. Si è risposata e con il nuovo marito, anche egli separato e con due figli all'attivo, ha creato una nuova famiglia. Una delle prime vere famiglie aperte, almeno nella zona in cui vivevo io. La mia famiglia è ancora più speciale perché ha scientemente scelto di resistere agli urti e alle tempeste e oggi, nonostante l'incredulità di molti, siamo fortissimi e ci amiamo profondamente. 
Nel mondo professionale, ha svolto per anni, una professione sotto il completo appannaggio degli uomini: arredatrice di interni. Lo ha fatto con grazia, eleganza e talmente bene che è stata contesa dai migliori studi di Napoli fino ad andare a lavorare in Basilicata cinque giorni la settimana e nemmeno in quei momenti io sentivo l'assenza di mamma, perché lei era comunque presente. Chiuso il capitolo arredamento, ha provato, per farmi felice, a restare a casa, pur essendo io molto piccola, ricordo bene che mi accorgevo di quanto non fosse ciò che veramente voleva. Poi ha aperto un ristorante con il suo attuale marito. Un piccolo ristorante che in poco tempo diventò una leggenda tra i sessantottini della Napoli bene, tanto da doversi spostare in un locale più grande e poi... ma basta, questo post non è nato come biografia di mia madre. Il punto che volevo toccare è, quanto si sarà sentita in colpa mia madre, per non essere la mamma del mulino bianco? Perché vedete amiche, non importa quanto la società finga di appoggiare l'uguaglianza tra i sessi. La verità è che questa ancora non esiste e onestamente, non credo esisterà mai. Siamo ancora fermi al punto di partenza. La donna, deve ancora scegliere se essere mamma o donna che lavora. Mi spiego meglio.
Un uomo lavora, secondo il mio punto di vista, non fa nulla di eccezionale, se non quello che facciamo tutti noi esseri umani eppure, lui lo farà notare, quando gli chiederai di svuotare la lavastoviglie, lui dirà, io lavoro, sono stanco. Lui si arrogherà il diritto di essere stanco perché, poverino, lui lavora e, sebbene tu sappia, di lavorare il doppio di lui, purtroppo sei una donna. Non conosci la stanchezza e la svuoti tu la cazzo di lavastoviglie, oppure, semplicemente, non lo farà nessuno e, con ogni probabilità, mentre svuoti la lavastoviglie sei ancora con le scarpe col tacco, stai giocando con tua figlia, cucini e trovi anche il tempo di essere su whatsapp con un'amica. Perché sei donna, ma devi ancora parlare di uguaglianza.
Un uomo lavora e per quanto istruito e di buona famiglia sia, alla fine, ti porterà il conto amica mia, credimi è così. Non lo fa per cattiveria, lo fa perché è nella sua natura. Puoi lavorare, perché tu, amica PUOI lavorare, ti viene concesso di farlo  e di fare la mamma e la moglie o la compagna, la lesbica, la transgender, sono tutte concessioni che ci vengono gentilmente provviste dagli uomini. 
"Certo, amore che sono contento che hai trovato un lavoro che ami! Hai il mio totale appoggio, ma a che ora pensi di tornare? No, per sapere..." ecco, questo è più o meno quello che ti sentirai dire. A te, non è mai passato per l'anticamera del cervello, di porre questa domanda al tuo compagno, perché dai per scontato, che tornerà quando avrà finito. Sei stata educata, in quanto donna, a non fracassare le palle degli uomini e, di conseguenza, ti adegui e ti organizzi con casa, vita e figli, senza pesare sui piani lavorativi del tuo uomo. Lui no. Lui è stato educato che le mutande gliele devi lavare tu, quindi col cazzo che si può organizzare, senza sapere quando torni a casa a lavargli le mutande.
Ora poi, siamo nell'era digitale, quindi le tattiche, peraltro molto poco intelligenti degli uomini, sono cambiate. E così ti arrivano i messaggini su whatsapp, le richieste di facetime, oppure le telefonate perché quella povera stella di tuo/a figlio/a ti vuole vedere e zaac! eccolo, il nervo scoperto, il tallone di Achille, ormai il senso di colpa si è insinuato, il tuo cuore è già inquinato, la gioia pura e semplice che provavi un istante fa,  nel fare quello che ami è andata piuff... sparita. Ora ti senti solo una carogna egoista che lascia il sabato a casa il suo tesoro inestimabile, l'unico amore della sua intera esistenza che non si affievolirà mai, ma anzi crescerà solamente.
Non importa quanto tu ami il tuo lavoro, o te stessa, quanto tu non voglia cedere alle provocazioni e goderti, finalmente, dopo tanto, troppo tempo, il tuo momento, sarà tutto sempre troppo poco, paragonato al senso di colpa che la voce triste e annoiata del tuo stesso sangue all'altro capo del telefono ti provoca. Quanto vale la felicità di mio figlio? E' un costo inestimabile, giusto? Vale tutti i sacrifici del mondo, non è vero? Vale la nostra stessa esistenza, che bisogno c'è di dirlo? 
Ma quanto vale una madre felice? Ecco, questo è quello che forse, dovremmo iniziare a chiederci. Quanto una donna felice può essere una buona madre? Quanto può esserlo una madre infelice?
La felicità è una scelta, mi è stato insegnato da poco. E' una scelta coraggiosa che dobbiamo compiere ogni giorno. E' coraggiosa, ora lo so, perché la felicità passa per la conoscenza e l'accettazione della propria imperfezione. Amica che mi leggi, se mi leggi. Scegli la felicità, scegli te stessa, opera una scelta che i più valuteranno egoista e fa sì che tua figlia, abbia un modello di donna sano ed equilibrato da seguire, se invece il tuo è un bimbo, fa sì che tuo figlio impari ad amare le donne con il rispetto e il semplice buon senso che ci è dovuto.
E buon lavoro, amica.

martedì 17 novembre 2015

L'africa a casa mia.

A volte mi chiedo perché non possa fare a meno di mettermi in discussione.
Io sono un po' come i rettili, lo sono sempre stata, ad un certo punto, ho bisogno di cambiare pelle e non c'è nulla e non c'è nessuno, capace di fermarmi.
Ormai dovrei esserci abituata e invece, ancora oggi, mi fa male. E' proprio un dolore fisico. Il corpo sacrificato che si straccia le vecchie pelli di dosso e il nuovo strato, brillante, ma ancora troppo sensibile.
Le cose accadono per un motivo, sempre. Non ho un Dio particolare a cui parlare la sera, prima di addormentarmi. Credo però sia dannatamente vero che le vie del Signore sono infinite.
Fino al giorno in cui ho deciso di sposarmi, ho sempre agito di pancia. Sono fatta così, il mio motore sono le emozioni, anzi, spesso le sensazioni. Non sempre mi è andata bene. Sulla base delle mie esperienze, mi ero fatta l'idea che scegliere col cuore solamente, fosse sbagliato. Ho scelto mio marito con il cervello. Ecco, detta così può sembrare una cosa cinica e patetica, invece no. Mio marito è stata la prima scelta adulta della mia vita. Ho usato la testa. In quel momento frequentavo anche un altro ragazzo. Un ragazzo con il quale avevo dei trascorsi burrascosi, dovuti in gran parte, alla disarmante somiglianza dei nostri caratteri. Due prime donne insieme, non vanno lontano. Così quando ho pensato, ho trent'anni suonati e sono stanca di bruciare, ho capito che, mio marito, al quale non mi legava solamente un'emozione di pancia, ma anche una ventennale amicizia e conoscenza, era la persona giusta al mio progetto di vita. O questo, oppure, come sono più orientata a credere, i miei ormoni hanno scelto lui per riprodursi. In questi giorni però, mia madre mi ha invitato ad usare il cervello e quindi ecco la teoria dell'aver scelto mio marito col cervello e non con gli ormoni. :)
Insomma, il matrimonio è stato lo spartiacque della mia esistenza. Non avevo mai veramente pensato di sposarmi, mi era cara la massima di Troisi: "io non è che sia contrario al matrimonio, però mi pare che un uomo e una donna, siano le persone meno adatte a sposarsi", ma ad un certo punto mi sono buttata e mi sono ritrovata in una centrifuga incessante di emozioni e di ormoni, se consideriamo che dopo quattro mesi di matrimonio ero già incinta di Virginia. La nascita di Virginia ed i suoi primi tre anni di vita, sono stati un vero e proprio giro sulle montagne russe. Tanto che, guardando molte mie amiche che continuano a riprodursi senza il minimo cenno di cedimento mentale, inizio a domandarmi se davvero non sia il problema.
Virginia si è impossessata di me. Ha, di fatto, espropriato me stessa dal possesso del mio corpo che io ho sempre amato, essendo di base un'egocentrica narcisista, della mia capacità relazionale, fattore fondamentale al mio benessere psico fisico, perché con una bambina prima attaccata alle tette a fagocitare le quattro energie ancora rimaste nel tuo organismo e poi, col tempo, quando cresce, una bambina che vuole saltare, ciarlare e avere svelati tutti i perché del mondo, costantemente h 24, non è facile relazionarsi col mondo, spesso, hai solo voglia di un barattolo di nutella: muto e confortevole. Ma soprattutto, il mio amore più grande, la mia ragione di vita bla, bla, bla si è impossessata dei miei silenzi. Ora, chi scrive, ma anche chi legge, lo saprà. I silenzi reggono le nostre esistenze. Sono i pilastri della nostra vita. E' nel silenzio che si creano i romanzi, è nel silenzio che vivo la vita Anna Karenina. Il tutto, condito da un marito e non ho bisogno di altri approfondimenti, credo.
Insomma, sono passata dalla condizione di figlia, a quella di moglie e madre, in un lasso di tempo, davvero troppo breve. Non sono mai potuta essere donna, punto.
Fin qui, tutto normale. Regolari turbamenti di una donna media di trentatré anni. Giusto?
Senonché, mi si presenta l'occasione di un nuovo lavoro. Chi mi conosce, sa che ho sempre fatto un lavoro che, in generale, non mi piaceva. Questo nuovo lavoro invece... whaoooo, è quello che ho sempre sognato. Ho detto, cavoli mi butto. E in un nano secondo, la mia vita è stata ributtata in una centrifuga. Una centrifuga bellissima però fatta di colori, culture e aromi di diverse culture. E' solo che il mio nuovo lavoro, ha una controindicazione. Ti svuota. Vivi tante storie umane al giorno e alla sera, sei schiacciata dal senso di inadeguatezza e piccineria dell'umanità con l'unico microscopico, eppure, fondamentale risvolto positivo, dell'aver, a tuo modo, contribuito a creare un sorriso su volti che fino a tre mesi fa, rischiavano la morte nel mar Mediterraneo. Questo è un lavoro che da e toglie quasi in egual misura, eppure, non lo cambierei mai. Da qui il cambio di pelle, i turbamenti e l'assenza di scrittura. Sono ancora in fase di rodaggio. Sto ancora cercando di capire come fare, a non portarmi tutti i loro bagagli emotivi sulle spalle.
Ma è un buon momento per la mia anima. Ho ritrovato le scelte di pancia, perché se il cervello avesse contribuito alla scelta, sarei rimasta dov'ero, dove non vedevo, ignoravo e, in sostanza, giravo in tondo.
Ho scoperto che non hai nemmeno bisogno di partire per aver il mal d'Africa.
A volte penso che l'Africa non sia nemmeno un continente, a volte penso che l'Africa sia una condizione d'essere. Africa è amore incondizionato. Africa è dignità. Africa è gli occhi più belli del mondo. Africa è dove si mangia in tre si mangia in dieci. Africa è musica. Africa è risate fragorose. Africa sono tanti suoni familiari e chiassosi. Africa è un tempo dilatato. Africa è dolce indolenza, mista a incomprensibile pigrizia. Africa è it's not my stress. Africa è wifi no buono. Africa è you can't change the future. Africa è It's up to God e tu con i tuoi trentatré anni di retaggi culturali, sei lì che li guardi e li vorresti scrollare dalla loro beata indolenza e urlare vai e prenditi ciò che vuoi perché è così che sei stata educata, eppure, in qualche modo, senti di non doverlo fare, senti di non voler risucchiare anche loro nel nostro meccanismo malato, ma lo saranno e perderanno l'ingenuità e il candore delle loro stupende pelli nere. Allora, tutto ciò che ti resta e sperare che accada il più in la possibile e nel frattempo, semplicemente amarli.