venerdì 29 dicembre 2017

Sul Natale appena trascorso e la Medusa del Caravaggio.

Anche questo Natale, è passato. Anche questo Natale, come da tradizione, mi ha portato disastri, malumori e disincanto. Anche questo Natale, mi ha interrogata a fondo, per trovarmi, desolatamente, impreparata. La domanda, sempre la stessa: sono in grado di amare, veramente?
Non è che non ci provi. Non è che non mi emozioni vedere due persone restare anche quando la vita puzza e la fuga, sembra l’unica scelta sensata. Piuttosto, è la mia urgenza di essere compresa che viene, puntualmente, disattesa, nonostante, la mia ossessiva ricerca delle parole adatte.
La cosa più giusta, sarebbe presentarsi con il proprio carico, ben visibile, sulle spalle. Tutto in bella mostra. Esporlo alla luce senza paure, con orgoglio. Denudarsi. È una parola che amo particolarmente. Spogliarsi degli orpelli che ci rendono Belli (chi mi conosce capirà). Smettere di dire le parole giuste. Dimettere gli abiti che ci fanno monaci e restare in piedi in tutto il nostro peggiore orrore. Bisognerebbe, avere la possibilità di dribblare l’intera faccenda del conosciamoci meglio, un passo alla volta, un errore tira l’altro; tanto non ci si conosce mai abbastanza per non smettere di amarsi. Bisognerebbe, poter arrivare con tutti i demoni che ci escono dal capo, come fossimo tutti la meravigliosa Medusa del Caravaggio e, presentarli uno ad uno. Sgranarli di fronte allo sconosciuto, come il più sacro tra i Rosari. Allora, probabilmente, andrebbe così:

-Ciao, ti ho visto da lontano e ti ho riconosciuto. Ti voglio, ti voglio da morire, ma ecco qui il problema, la mia vita è un cazzo di labirinto e sono ricoperta di cicatrici che via, via si rinfuocano e bruciano. C’è questa abitudine che ho di sopravvivere ogni volta. Sono un’unità finita, è inutile che cerchi di completarmi. Sono la peggiore persona che tu possa incontrare. Sono nevrotica, soffro di una rara forma di incontinenza verbale, tradisco me stessa ogni tre minuti, ho una famiglia complicata, per usare un eufemismo, che succhia via ogni mio tentativo di emancipazione. Sono una maniaca del controllo, mangio male. Bevo troppo, lo dice sempre, anche, mia madre. Sono sfrontata. Dico cazzo ogni due parole. Cerco giustificazioni per ogni mia cattiva azione e, credimi, ne compio tante. Costruisco divinità e le distruggo come il Lupo con la capanna dei Tre Porcellini e tu, ti sentirai spesso smarrito per questo. Sono brava a venderti fumo, mentre credi di stringere l’affare della tua vita. Non credo nei compromessi. Prometto e non mantengo. Sono il genere di persona che non capisce quello che sente, anche quando il cuore glielo scrive a caratteri cubitali in volto. Per paradosso, potresti essere l’amore della mia vita, io continuerei a non capirlo, solo per poi averne un leggero sentore, un attimo dopo averti perso, per sempre. Sono infedele nel Dna. Vivo con le valigie fatte perché non so mai quando uscirai dalla mia vita. Non ho paura di ballare da sola. Trascorro la maggior parte del mio presente e del mio futuro, a cancellare il mio passato e, non so se possa interessarti, ma non potrò mai essere tua, perché sono di tutti. Sono Michela Belli e, quindi, devo concedere alle persone tutto quello che vogliono. Non chiedermi perché. Mi è impossibile il contrario.
Ora, posto che, solo un eroe resterebbe, uno dal cuore più puro della norma, a quel punto, sarebbe normale essere oscuri, sempre, anche quando il mondo ti intima di sorridere e cantare Bianco Natale. A quel punto, sarebbe normale, restare nella propria zona di conforto al buio, su un divano, seduti l’una accanto all’altro, i corpi distanti, le anime, in silenzio, avvinghiate a sudare l’ amore. Basterebbe andare in giro con un cartello parlante con su scritto GIORNO OSCURO e il nostro eroe capirebbe che a Natale, tu non puoi essere normale.
Che utopica idea di libertà, vero? Che idea di perfetta felicità è mai questa, non è vero, amiche?
Invece eccomi qui, fuori dalla mia zona di conforto a dover parlare e dare spiegazioni. Mi vengono poste, continuamente, domande alle quali non so dare una risposta, perché le uniche certezze che ho, riguardano me, la mia leggendaria incapacità di prendere la giusta decisione. Perché so che sono una che: l’amore dura tre anni, se non cachi prima le farfalle. E allora mi dico che Natale è andato. Anche quest’anno ce l’ho fatta. Il 6 gennaio è dietro l’angolo, basta stare in apnea un’altra settimana e poi, tornare alla mia immobilità, al mio controllo. Fuori dalle emozioni, che quelle non fanno per me. Mi travolgono, sempre. E conto lentamente le parole già dette, sono ancora lì con te, tra il palato e la gola e mi ricordo di quando Lev Tolstoj ha scritto: “Non è per te questa felicità. Questa felicità è per coloro che non hanno quel che c’è in te”.

Buona fine e buon principio.

giovedì 21 dicembre 2017

Che poi, era peggio se nascevo Cane.

Del Natale odio ogni singola cosa, ma più di tutto, mi fa incazzare sapere che nemmeno questo, è l’anno dei Gemelli. Non ho capito cosa aspettino ad ammetterlo. L’anno dei Gemelli non esiste, vi prendiamo per il culo da 2000 anni. Che almeno uno si mette l’animo in pace e non corre ogni primo gennaio a cercare il tema natale, l’ascendente, le stelle, gli astri nascenti e i pianeti in collisione per scoprire che, anche questo cazzo di anno, è dello Scorpione! E quando non è Scorpione, è Pesci, Bilancia, TUTTI, ma non il Gemelli. Il Gemelli, invece, ha sempre qualche pianeta del cazzo in traiettoria che distrugge ogni possibilità di ciorta. Ci chiamano #gemellimaiunagioia, ma noi non lo capiamo. Sì, perché noi dei Gemelli, siamo come i calabroni della storia di Einstein, che poi, magari l’ha detto sua moglie e ci raccontano che l’ha detto Einstein, perché che ve lo dico a fare?! Ma se avete visto il film della sua vita, saprete che la moglie era un pezzo avanti, giusto per informazione. Comunque, il calabrone è quell’insetto la cui apertura alare non è giusta per volare, ma lui non lo sa e vola lo stesso. Ecco, noi dei Gemelli siamo così, non siamo fatti per la felicità, ma la tristezza ci rimbalza e siamo felici lo stesso. Siamo inconsapevolmente felici. Questa inconsapevolezza ci accompagna sempre. Inciampiamo nelle casualità della vita, seguiamo il sesto senso, ci illudiamo di stare in equilibrio e cadiamo, ma ci rialziamo, ogni volta, al tappeto non sappiamo stare.

Siamo come le foglie di Malika Ayane, tremiamo e moriamo un po’ per il nostro stesso cuore, ché lui arriva sempre prima della testa. Lo sappiamo, ma siamo terribilmente testardi, cerchiamo di smentire ogni dannata volta quello che il cuore ci sussurra. Vorremmo, terribilmente vorremmo, essere razionali e, a modo nostro, lo siamo, perché siamo cerebrali. Noi l’amore lo facciamo con la testa, il corpo è solo un mezzo.Per questo tradiamo peggio di altri. Il piacere in un Gemelli nasce in un punto preciso del cervello, nella sfera del linguaggio e della comunicazione. Siamo di quelli che per un congiuntivo sbagliato chiedono il divorzio, per dire. Di quelli che per un complimento ben pensato, uno di quelli che, quando li senti, bruci in un secondo, uno tipo: sei bella e ingiusta, non dormono per un mese, per dire. Perché in quell’incantevole ossimoro, c’è tutto del Gemelli, il sacro e il profano, il bello e il brutto, la vanità e l’interiorità, l’egoismo e l’empatia. Vorremmo essere titanici, ben saldi sui nostri piedi e, invece, siamo condannati alla tempesta. Per questo la gente ci sta intorno, vogliono salire tutti sulla nostra giostra emotiva, provare l’ebbrezza delle nostre montagne russe; finita la corsa tutti via. C’è forse da biasimarli? È complesso da queste parti. Vogliamo l’amore, ma vogliamo essere liberi. Vogliamo la libertà, ma ci sentiamo deprezzati e sviliti, se non siete gelosi fino al midollo di noi, del nostro corpo, del nostro odore, delle nostre parole, del nostro passato e più di ogni altra cosa, del nostro cervello. Se sei così coraggioso, da volere un Gemelli, devi prenderti il suo cervello, il cuore seguirà. Vogliamo la gelosia, non il possesso, perché, se davvero vuoi un Gemelli, lo devi adorare quando è libero, o lo perderai. Non te ne accorgerai. Sarai convinto che sia tutto nella norma, ma nel frattempo quel Gemelli starà distruggendo la tua immagine ai suoi stessi occhi. Brandello dopo brandello, non resterà granché della divinità che ti aveva fatto diventare. Un giorno lo guarderai e capirai che lui è già altrove. Altrove è la nostra dimensione. Qualcuno, mi ha chiesto, ma poi, altrove dov’è? Ci sei stata? È bello lì? È stata la risposta più difficile, alla domanda più complessa, che mi sia stata mai posta, ma alla fine, ho risposto. Credo. Spero. Io vivo in due mondi. Quello in cui sono e quello in cui vivo. E non posso vivere dove sono, perché è un cazzo di casino. L’età adulta sta nel bilanciare i due mondi. A 30 credevo di aver trovato il giusto ago della mia bilancia, mi sbagliavo. A 35 con una nuova vita tra le mani, credevo di aver capito, almeno, io chi fossi e che potevo camminare saltando di palo in frasca tra l’altrove e il qui. Un computer su cui scrivere di altrove, un lavoro nel qui e nell’ora. E, indovinate? Anche quando sono qui, penso ad altrove. Se avete un Gemelli nella vostra vita, provate a fargli la stessa domanda. Sono sicura che questo post, che ai vostri occhi apparirà come sconclusionato e a tratti esagerato, a loro sembrerà ordinaria amministrazione. Siamo fatti così, una valanga di emozioni difficili da gestire, per usare un eufemismo. No, non siamo per tutti, è vero. Non siamo di quelli che si comprano con poco. Siamo bravi a farvi credere di essere della scuola unicorni e arcobaleni, quando la verità è: siamo perversi nella magistrale capacità di prendere, sempre, la scelta più sbagliata possibile. Non è che non la vediamo quella giusta, è proprio che non ci interessa. Sistematicamente noi dobbiamo complicare il pane. Ancora vi chiedo, c’è da biasimarvi quando scappate?

Insomma, io i pianeti in collisione con il mio oroscopo, li capisco. Ci sono giorni in cui mi sveglio come Cenerentola, canticchiando con gli uccelli e usando gentilezza verso ogni essere vivente, poi un coglione mi taglia la strada, mentre sono in ritardo per portare mia figlia a scuola ed è come, se un asteroide dallo spazio, si mettesse nella traiettoria esatta del mio giramento di palle. Ora se calcolate che un anno è fatto da 365 giorni e che ogni giorno un coglione almeno lo dovrete incontrare, vi toccherà iniziare almeno un giorno senza caffè perché avrete dimenticato di comprarlo (questo poi, dove siete causa del vostro male, vale come doppio giorno di merda), sarete fagocitate da un gruppo whatsapp dal quale vorrete disperatamente uscire (questo vale tre giorni di merda), vi innamorerete quando pregavate che non vi accadesse mai più, sarete al settimo cielo per suddetto amore, poi l’amore finirà perché ci sarà qualche congiuntivo sbagliato di troppo, o l’amore non finirà, ma si complicherà e vi asfissierà e vorrete la fuga, e poi la fuga non era quello che volevate e poi altrove, altrove, altrove capirete perché, nemmeno il 2018 sarà l’anno dei Gemelli, amiche. Facciamo pace col fatto che, siamo destinate ad arrancare nella nostra inquietudine e vedrete che questo, non sarà il nostro anno in termine di oroscopo, ma sarà senz’altro l’anno della nostra consapevolezza. O questo, o trasferiamoci tutte in Cina e perculiamo l’oroscopo occidentale. Che poi, non so voi, io sono Cane e tutto quello che so di questo segno, è che il 2017 non era un buon anno e per il 2018, ho già controllato il tasso di cambio Gemelli/Cane e le previsioni sono funeste, con una stellina solitaria in ogni dove: amore, lavoro, fortuna e, anche, salute.

Le ovvietà, anche in Cina.

Che poi una dice, accontentati dell'enneagramma dei caratteri della Gestalt.

Altra, breve, storia triste.

Sono un due.

Fine.

Ciao.

domenica 17 dicembre 2017

Supereroi e vino rosso

Avevo detto che non avrei parlato dei miei vuoti emotivi, ma più vivo, più mi sembra chiaro che, ognuno di noi, è la somma dei propri vuoti. Vuoti emotivi e vuoti che derivano in maniera direttamente proporzionale, da loro. Prendiamo l’annosa questione Michela e la maternità. Essere cresciuta con la sindrome dell’abbandono, mi ha resa una donna perennemente in fuga e diventare madre mi ha, invece, inchiodata a quest’altro essere umano che in simultanea, dipende da me e ha il potere, di fare di me ciò che vuole. Io sono sua. Vorrei poter dire che questo la renda infinitamente ricca, ma per quel che so, valgo poco e lei non lo immagina nemmeno lontanamente.
Della maternità mi fa terrore tutto. Soprattutto, questa sensazione angosciante del camminare costantemente con il cuore pulsante fuori dalla gabbia toracica. Mi fa sentire terribilmente vulnerabile. Oscillo tutto il tempo tra questi due poli, liberare la meraviglia di V e regalarla al mondo, o, rinchiuderla di nuovo nella mia pancia, lontana il più possibile dal mondo e le sue brutture. Riunire il suo respiro e il battito del suo cuore al mio. Il problema principale è smettere di sentirmi un’imbrogliona. Lei mi guarda, mi ama e corre leggera ché la sua mamma sa tutto di tutto, la sua mamma può curarla da tutte le bue e, invece, no. La maggior parte del tempo, ciondolo per la casa senza avere la minima idea di quello che sto facendo. Chiudo gli occhi e spero di non ammaccarla. La paura dell’ammaccarla mi viene dal primo cambio pannolino, da allora, è cambiato tutto intorno a noi. È cambiata V. Sono cambiata io. Ho stravolto innumerevoli volte il suo mondo e, ancora, ho paura di ammaccarla. È una situazione paradossale perché, più lei mi guarda con quegli occhioni pieni di aspettative, più io mi sento piccola e vorrei scappare nell’angolo più remoto di casa, rannicchiarmi al buio e fingere di aspettare mia madre che torna dal lavoro. Devo, invece, reggere il suo sguardo, così puro e autentico da farmi sentire il peggiore essere umano sul pianeta e devo, mentirle, raccontarle che andrà tutto bene e che mamma ci sarà sempre. Sono le bugie bianche, dicono. Sono le bugie che fanno crescere, dicono. Io non lo so. Chiudo gli occhi e spero di non ammaccarle l’anima.

Mi interrogo molto sul mio essere madre. Non penso di essere adatta al compito. Non me la godo come vedo fare a tante mie coetanee. Tutti concordano che essere madri sia la cosa più stancante di tutte. Per me è più di così. Non è, solo, la stanchezza fisica. Quella non la sento più. Mi sono abituata che, il mio modo d’essere è, ormai, questo: #stancacomelamerda
Invece, il silenzio e il mio mondo interiore, fino a cinque anni fa, più movimentato di quello esterno, mi mancano. È come se vivessi in una schizofrenica sincronia tra azioni, parole e mondo circostante. E, tuttavia, sono in diacronia con i miei luoghi interni. Posso davvero dirmi felice quando non trascorro almeno metà della mia giornata a pensare? Allora, mi sono detta che questa cosa di V e di me che sono sua madre, è una versione alternativa della felicità come me la immaginavo. Certo, quando salta sul divano, quando urla impietosa, quando mi dorme addosso, quando mi impedisce di essere me, altro da lei, mi sembra una versione sadomaso e perversa della felicità così come me la immaginavo, ma non posso dirmi infelice perché, quando mi è lontana per più della normale giornata scolastica, vado in deficit di ossigeno. Quindi è un bel casino. Sono una donna spaccata. E, questa scelta di fare la mamma single, mi rende più spaccata della norma.
Chi come me cresce un figlio da sola, almeno nell’ordinaria amministrazione, sa bene di cosa parlo.

Ci sono momenti che senti che non ce la farai. Ci sono giornate, in cui metti davvero le scarpe nel frigorifero, per parafrasare il paradosso di Fedez, ma poi, in qualche modo, varchi la soglia di casa, tu, le buste della spesa biodegradabili perennemente rotte perché, quelle buone sono, ovviamente, appese accanto alla porta di ingresso, il cane che tira perché sta per morire disidratato anche se ci sono 5 gradi, tua figlia che dice “mamma, ti dico una cosa” proprio mentre il manico della busta sta cedendo e tutta la spesa sta per cadere, la lampadina delle scale che l’amministratore ti ha detto avrebbe cambiato un mese fa e, invece, è ancora spenta, allora prendi il cellulare in tasca, cerchi di far luce con la torcia dell’iphone che di norma è mezzogiorno di fuoco, ma la sera non ha nemmeno l’intensità di una candela e, finalmente, in qualche modo, la chiave gira nella serratura ed è magia, è casa.

V continua a spiegarti che Matteo le ha tirato i capelli. Di istinto, le dici che i maschi fanno così quando una bambina gli piace. Mentre lo dici ti odi, perché pensi di stare perpetrando la violenza di genere su una bambina di 5 anni dandole l’idea che, un maschio è violento se ama. Poi pensi sticazzi, a me dicevano così e mai nessuno maschio ha pensato di sfiorarmi perché, di solito, sei tu, a fare paura agli uomini. Ti dici che sei solo stata fortunata. Allora, decidi di correggere il tiro e spieghi a tua figlia che la violenza non è mai una scelta giusta. Cerchi con le ultime energie della giornata di prepararle una cena decente. Riponi la spesa nei mobili. Il cane deve mangiare, ma non mangia se non ti fermi accanto a lui. Apri un Santa Cristina, uno di troppo, ma di nuovo sticazzi e mentre vai in decompressione col primo sorso, realizzi che anche oggi l’hai sfangata.
La giornata è andata.
Sei un super eroe con una bambina con la pancia piena, il cane pure e un calice di rosso in una mano.

lunedì 11 dicembre 2017

Le regine del 33, 33 e 33

L’altro giorno, parlavo con una mia cara amica. Una donna che amo e stimo in egual misura, in quella maniera assoluta di metempsicosi per la quale, una diventa identica all’altra, nel percorso che si fa insieme. Una cosa che con un uomo non potrebbe mai capitare, a meno che, non si incontri uno di quegli esseri mitologici muniti di un pene e di una sensibilità femminile che gli dica come usarlo. Un femminista, vero. Lo dico e mi sembra di infrangere un tabù. L’ultimo baluardo sulla via dell’illuminazione circa rapporti di coppia uomo/donna. Insomma, se ne conoscete uno, esponetelo al mondo, che qui siamo tutte alla ricerca del Sacro Graal. Non siate egoiste. Non siate quel tipo di donna che trova, per puro caso, il cioccolattino giusto in una scatola dai gusti di merda e pensa “ora me lo pappo io da sola, mangiatelo tu, quello al marzapane!”. Siate altruiste. Dite no al marzapEne per tutto il genere femminile. Facciamo rete, no? Oggi si fa rete per tutto. Non so nei vostri lavori, ma nel mio, c’è un “tavolo di consulta” per ogni tipo di scelta, da quelle importanti alla festa del Natale.

Insomma, sabato sera, io tornavo da un incontro con la cittadinanza di Piombino, teso alla sensibilizzazione sul tema immigrati e lei era a casa. Lei in coma sul divano, io in coma in auto. Lei in lotta con la noia, io con la parte di me perennemente in fuga, ma questo, ve lo racconto un’altra volta e lei, come fa sempre, mi ha fatto riflettere su una teoria interessante.
Noi, donne intorno ai 30 –dove, a dirla fuori dai denti, non si capisce se siamo più intorno ai 30 o ai 40, considerato che siamo proprio nel mezzo, ma, in fondo, lo sanno tutti che i 40 di oggi sono i 30 di ieri- al netto di un’indipendenza economica che, spesso, si accompagna ad una maggiore sicurezza e autostima e, quindi, nel campo sentimentale, ad una emancipazione dall’altro, con un matrimonio o una convivenza alle spalle, un cane o un gatto a riscaldarci il cuore e, alcune, con delle estensioni di noi, i figli, da crescere, siamo quelle del 33-33 e 33.

No, non siamo afflitte da una perversa sindrome di Peter Pan che ci cristallizza agli anni di Cristo in croce. Per quanto dolorosi siano stati, la maggior parte di noi, ne è uscita ammaccata, ma in qualche modo incolume, da quei 365 giorni di panico e delirio che sono i 33. E, no, 33 non è il numero di uomini che abbiamo amato. 33 è la quota vitale che siamo, fisicamente capaci, di dedicare.

Se è vero che siamo unità intere, allora, un 33% della nostra quota di energie, la dedichiamo al lavoro. Un lavoro che abbiamo imparato ad amare e a sentire nostro. Un lavoro che spesso sfida le leggi della fisica di piegamento e flessione di un corpo e di uno spirito, ma che cavalchiamo come intrepide amazzoni.
Un altro 33% della nostra quota vitale, va alla famiglia, qualunque essa sia. Da quella mononucleare con te e il gatto (che poi sono sempre almeno due i gatti) a quella della mamma single, con un bouledogue francese affetto da aerofagia acuta e una quarentenne rinchiusa nel corpo di una cinquenne come figlia, o, ancora, quella con te e la tua donna o il tuo uomo, o quella in cui ci sei tu, un marito e figli di diverse unioni o, quella strana cosa chiamata famiglia tradizionale, che a me da sempre i brividi e della quale stento a fidarmi per incolmabili vuoti emotivi, dei quali, state tranquille/i, non parlerò. Per quello esiste una stanza con divano apposta. Il lettino non c’è. Non sperateci. È un’altra leggenda.
Infine, l’altro 33% alcune lo dedicano all’amore, altre al sesso, quello adulto, pieno e cosciente. Quelle parecchio fortunate, coniugano entrambe le cose. Per un periodo sufficientemente lungo del proprio viaggio.
L’altro 1% che fine fa? Quello, è il maledetto quid impazzito che vaga feroce lungo le tre parti di noi. A volte fa pendere la bilancia sul 33 del lavoro; in quel caso, ci danno delle ciniche arriviste. Altre volte sul 33 della famiglia e ci chiamano casalinghe frustrate, altre, sul 33 del sesso, allora ci chiamano ninfomani, altre sul 33 dell’amore e lì, amiche, sono pene. Vero?

Insomma, è la storia di sempre. Come in Sex and The City, io l’ho amato quel telefilm, ma bimbe, che fatica a restare imprigionata in uno solo dei personaggi!
Carrie, la Regina di Cuori. Quella dei grandi incendi emotivi e degli iperbolici interrogativi, quella che osserva il mondo con l’occhio curioso dello scrittore.
Samantha, la Regina delle Picche, dell’indipendenza economica, della libertà sessuale, ma anche capace di contenere il dolore di un cancro.
Miranda, la Regina di Quadri, la più umana e sarcastica, quella della verità ad ogni costo, quella della mamma single, della donna tradita, della moglie che perdona; quella dei chili di troppo post partum e delle difficoltà di una donna che, pensava di voler fare carriera più di ogni altra cosa al mondo, ma poi scopre che, diventare madre, inevitabilmente ti cambia. Forse non nel nucleo, ma, di certo, nel modo di operare le scelte.
E, infine, Charlotte, la Regina di Fiori. La Regina della Casa, quella dell’Amore con la A maiuscola, capace di convertirsi ad un altro Dio per il suo uomo. Quella elegante. Quella di cultura. Forse la più sottovalutata. Quella che, a prima vista, sembra una borghese ipocrita che spaccia la sua istruzione, per amore dell’arte (è una gallerista ndr). E invece, poi, si scopre una donna capace di grandi profondità, fragile, ma titanica quando serve.

Ognuna di queste è il braccio armato e il cuore pulsante dell’altra e, insieme, formano una meravigliosa Matrioska.
Invece, cosa facciamo noi? Ridimensioniamo, ogni giorno, qualche parte di noi. Un taglietto qui, ché essere così libere sessualmente non va bene, un morso alla lingua ché il sarcasmo non è segno di intelligenza brillante, ma di cattiva educazione, un altro muretto da ergere nel cuore ché tutta questa passione per la vita finirà per distruggerti e una collana di perle in più, perché sei pur sempre una donna. Siamo noi, le prime ad ingabbiare le Quattro Regine che dormono dentro di noi. Siamo noi, le prime a non accettare che siamo quelle del 33. Abbiamo imparato ad imporci tutto: diete, palestra, jeans troppo stretti, tacchi troppo alti, un marito che detestiamo e non siamo capaci di convincere noi stesse che le donne come ce le hanno fatte figurare da bambine, non esistono più. Va bene così. Noi amiamo così e amare così, non significa, non amare abbastanza, essere così, non significa, non essere abbastanza. Va bene essere così, ripetilo con me, va bene essere così.
Puoi essere Regina di cuori, quadri, fiori e picche tutto in un’unica giornata perché, l’unica cosa vera, è che nessuno, ha il diritto di toglierti lo scettro che ti sei guadagnata. Tu sei la regina del 33 e vai bene così.


venerdì 8 dicembre 2017

Girls Hut perché la scrittura bussa sempre

Iniziare un progetto, crederci, appassionarmi e poi abbandonarlo, è tipico di me. Stanza antipanico, era questo. Per la prima volta, decidevo che scrivere era la mia priorità e, per un po', ci ho anche creduto, il tempo necessario a sentirmi schiacciata da me stessa e dalla mia incapacità di scrivere realmente quello che penso perché, se lo faccio, tutti scappano via. E invece tutti a dire che non è così e, forse, è vero che non scapperebbero, ma la paura che ho di ferire o di essere fraintesa, mi paralizza. La parte creativa del mio cervello, si inibisce e tutto quello che ne viene fuori è un patetico nulla. Scrivere, è dare scandalo. Se non dai scandalo, se non sei scomoda, vuol dire che non sei autentica e se non sei autentica, allora, non dovresti scrivere. Da qui, la scelta di non scrivere nulla che fosse più di qualche nota sparsa al margine del mio profilo Facebook.  Lo dicevo l'altro giorno ad una persona il cui cervello, è una meraviglia complessa e appassionante, il mio modus operandi, non è mai cambiato: correre, incendiare e farmi terra bruciata intorno. Sono incapace di aspettare. Forse è per questo che amo i vini. Quando ti versano un buon vino, ti chiedono di aspettare ad assaggiarlo. Lo devi fare decantare, riposare. E più lui riposa, più respira e, più respira, più cambia aspetto, colore e gusto. Le persone sono un po' come i vini. Alcuni tra i giovani, ad esempio, hanno bisogno di tutta l'aria che riescono a prendere. Lo fanno per prendersi il tempo necessario ad ammorbidirsi, per mostrare i loro diversi aromi e gusti stratificati. Ecco, così siamo noi, o almeno, così ero io. Ho avuto bisogno di tanto tempo per rilasciare i miei diversi profumi; per dimostrare che sono la stessa faccia di indefinite versioni. Sono stata molto dura e piena di spigoli. Ho dovuto vivere a lungo una vita che non comprendevo, affinché potessi ammorbidirmi e smussare quei lati di me, che mi precludevano strade che credevo portassero al Signore e che, invece, mi hanno portata ad un calesse. Ogni volta, fino a quando ho smesso di cercare un'illuminazione in posti diversi da me. Non è un caso che i vini vecchi non vadano fatti aerare. Essi rilasciano residui e sedimenti. Analogamente noi, in età adulta, smettiamo di cercare di dimostrare il nostro sapore. Abbiamo consapevolezza di noi e questo ci rende, inevitabilmente, più gustosi.
La mia attuale età, è un po' a quel punto. Ho raggiunto una sufficiente consapevolezza di me come donna e come madre e ho, la piena consapevolezza, di una cosa: sono una persona inquieta. La stasi mi distrugge. Creo, distruggo tutto in una sola istanza e, così, io vivo.
Ho sempre trovato strano come nella negazione di ogni possibile attesa, io trovi il mio unico porto sicuro.
Sono stati due anni di profonde trasformazioni. Ho stravolto la vita che avevo costruito su basi, che credevo solide e che, invece, affondavano nelle sabbie mobili perché, semplicemente, non poggiavano su me stessa. Ho preso fiato, naso all'aria, ho trovato la via dove mi trovo adesso, sempre con la sibillina certezza, che questa è solo una via e che, il percorso, lo creo io. Ho creato una nuova casa piena di amore, di musica, di arte e luce per me e V. Ho aperto le porte ad Artù, il nostro bouledogue francese, che ci insegna, ogni giorno, un amore mai conosciuto prima e sono ripartita da me.
Questa stanza, è la mia nuova casa. La aprirò ogni qual volta sentirò che ho qualcosa di vero da dire. Perché, la scrittura, alla fine, bussa sempre alle mie porte.