venerdì 25 maggio 2018

Cara madre single,

ma forse, semplicemente, cara amica madre,

lo so, casa tua non è un Carnevale di Rio. Dalle tue parti la vita è più una corsa sulle montagne russe, alti e abissi in ventiquattro ore. Una vita al pantoprazolo, altro che dove c’è Barilla, c’è casa.
Hai scelto di mettere il depuratore al rubinetto dell’acqua della cucina. IL DEPURATORE AL RUBINETTO. Questo spiega in tre parole la situazione attuale della tua esistenza: sei desolatamente sola e non importa quanto le persone che ami ti dicano il contrario, la verità è che sei così sola, da essere l’unica che poi dovrebbe portare la cassetta d’acqua a piedi, su per le scale.
Sei quella che pianifica di aspettare che tua figlia si addormenti per guardare un film o la tua serie preferita che in qualche modo misterioso, sei riuscita a scaricare, poi arriva sera, con lei il silenzio e tutto quello di cui hai voglia, è piangere in santa pace, senza paura di essere vista. Grossi, iper salati lacrimoni che bruciano. Anche stasera guardi il film domani, vero?
Hai finito da tempo immemore di guardare alle pubblicità con disappunto, a te non riguarda affatto quello che accade nella giungla della Pavesi dove il peggio che può succedere è la visita della suocera vestita da pelle di leopardo. Non sai cosa significhi aver un rapporto speciale con l’Ace pavimenti, perché il massimo del tempo che dedichi alla casa, è la lavasciuga della Folletto.
Cara amica, lo so anche oggi ti è toccata la sveglia, i pianti per la scuola, i capricci per il cartone animato del mattino, le suppliche perché si bevano quelle due dita di latte e non fa nulla che tu non mangi latticini e assumi il calcio dalla frutta secca, il tuo modello materno inconscio, ti impone che il latte sia la vera fonte di calcio e in fondo, chi sei tu per contraddire la voce interna di tua nonna che lavora di sgretolamento di maroni anche dalla tomba? I genitori si sa, e quindi i nonni peggio, lavorano anche da morti. Amen, che latte sia. Veronesi sa una sega, meglio nonna.
Amica, le conosco anche io le crociate per la mise del mattino, che “sotto il grembiule conta, mamma”!
Sei quella che nei giorni di festa terrorizza la figlia, raccontando storie di apertura scolastica parziale per i bimbi che fanno i monelli.
Sei quella che alle quattro del pomeriggio, ovvero, dieci minuti dopo l’uscita da scuola, si domanda: “è troppo presto per bere”?
Il momento più intenso della tua giornata è quando alle sette di sera metti in tavola la cena al tuo piccolo umano e tu, ti versi da bere. L’ora felice di mamma, la chiami. Tutto in perenne solitaria.
Sei la solita donna di sempre, eppure non ti trovi più. Ti avevano detto che sarebbe passata, che avresti imparato ad accettare che quella persona lì, quella che ti aveva accompagnato fino al test di gravidanza, sarebbe tornata. Ti avevano assicurato che il cervello sarebbe tornato ai funzionamenti di un tempo, alla vivacità, alla curiosità, alla giovialità del voler conoscere tutto del mondo e, invece, ti ritrovi stanca al solo accendere google earth. Certo, oggi a distanza di qualche anno dalla tua pipì su quello stick, le capacità mnemoniche sono rientrate negli standard di coloro che non hanno subito traumi alla corteccia cerebrale, anzi, se guardi bene, oggi il tuo cervello è una macchina complessa stupenda, piena di nuovi optional, prima sconosciuti: dal multitasking alla capacità di ritrovare una scarpetta di Barbie in un mare di micro oggetti mal riposti in una gigantesca cesta giocattoli, alla sorprendente capacità di ricordare ogni singolo nome di non una, ma quattro serie di LOL. Tutto questo però ha un prezzo. Che fine ha fatto la tua capacità di ricordare interi periodi di Anna Karenina? Tornerà, ti dicevano e invece, la tua capacità di leggere e ricordare deve essersi persa tra le righe dell’ultima lettura di storie della buona notte ed è per questo che a tua figlia tu non leggi fiabe, ma miti greci. La maternità è per te come un interminabile corso di studi al CEPU della tua città.

Tuo figlio è lo spartiacque della tua esistenza: quando eri te stessa e quando hai smesso di esserlo. Guardi alla metà di te stessa mancante con uno strano disincanto, che una pensa tu abbia compreso che quella grande assente non tornerà mai più e, invece, eccoti lì “aspettando, Godot”. La maternità ti sembra un concetto chiaro, eppure, non applicabile alle tue capacità di essere umano e più la tua prole cresce, più la tua incapacità si palesa e, allora, paradossalmente, in quegli attimi di sgomento, rientri nella tua vecchia pelle di umano non amabile. Ti riconosci, non è vero? La curva del sorriso contrito di chi sbatte in faccia alla vita la sua forza e poi, invece, crolla ad ogni caduta.
Hai voluto fare l’eroe, ancora una volta. Non è vero? Quella che, io sono madre, padre, amica e all’occorrenza Dio e oggi? Oggi sei nel caos e sei dannatamente stanca. Nemmeno a questo giro sei stata in grado di comprendere che tocca chiedere aiuto. Che il mondo non crolla se ammetti di non essere il mago di Oz.

Sei madre. Questa frase ti ha spaventata così tanto, che oggi, ti definisce nella tua totalità e mentre il mondo ti guarda e vede una specie di dea che ha creato un altro essere umano, un vero super eroe con il potere eccitante di dare la vita, di portare al mondo il nuovo, tu invece, ti guardi e pensi: tutto qui quello che sono? Dove sono andati a finire i tuoi sogni? E li rincorri senza sapere più cosa diamine cerchi. Allora trascorri il tempo a domandarti chi sei? Sei in una nuova spaventosa adolescenza con contorno di tempesta ormonale. Il ciclo si accorcia e la vita si accorcia solo che tu non senti il tic tac dell’orologio biologico, ma quello dei tuoi fallimenti. Quelli lavorativi, quelli sentimentali e quelli personali. La frustrazione ti spinge al patetico giochetto del condizionale “se non avessi scelto la strada impervia…” e tutti intorno a te, ti sembrano dannatamente felici nei loro matrimoni ammaccati e nelle loro case che profumano di cena. Non è così amica, sono solo comodi. Non tutti, è chiaro. Alcuni lo sono davvero, innamorati, ma non di quell’amore che tu credevi possibile. La scelta, infondo, è tutta lì.

Vedi, amica, io lo so perché sei qui, sono come te. Sei un’inguaribile romantica. L’amore per te è quello assoluto e non ha nulla a che fare con la procreazione, o meglio, è solo, al limite, la ciliegina sulla torta. Tu vuoi un uomo che voglia te, la donna che sei. Vuoi un amore fanciullesco direbbe qualcuno. E così sia. La verità è che se volevi l’amore borghese dell’amarsi a metà solo in caso di fecondazione, allora, restavi con tuo marito. Forse il tuo destino sarà di restare sola, o forse, un giorno sarai ricompensata per tutto il male che ti sei fatta e quell’amore che desideri arriverà, è puro gioco d’azzardo, all-in.

Eppure amica, non è questo il punto. Non è l’amore il punto. Hai fatto scelte complesse, perché sei un essere complesso ed è per questo che il tuo essere mamma, non segue sentieri regolari. Non puoi aspettarti di essere “diversa” e poi avere un ménage familiare “normale”. Non puoi aspettarti di essere quello che sei e poi pensare di avere un figlio che rientri nei canoni tradizionali di bimbo. Tuo figlio è come te. Tuo figlio è te. È l’estensione del tuo battito cardiaco, del tuo cervello e della tua stessa sensibilità. Tuo figlio, è una creatura meravigliosa, che segue strade impervie come te e il tuo unico compito, è accompagnarlo e sì, è un compito duro. A volte troppo, ma è anche il viaggio più straordinario che tu possa mai fare. Per ogni pianto versato in silenzio, nel buio della tua casa, quella casa che spesso sembra un a prigione, c’è una carezza, un bacio, un sorriso, una nuova scoperta di tuo figlio. E allora amica, va bene così. Perdona te stessa, per non essere quello che tu credi che il mondo e tuo figlio si aspettavano tu fossi e sorridi. Perdona te stessa, per tutti i drammi, i traumi e i problemi che credi di arrecare a tuo figlio e ricordati che la vita è fatta di tanti traguardi non uno solo e che quelli che oggi ti sembrano bambini più equilibrati, solo perché hanno mamma e papà sotto lo stesso tetto, probabilmente, domani saranno adulti che non saranno in grado di combattere per l’amore e si lasceranno andare al più facile e rispettabile compromesso del creare una vita insieme su basi troppe volte, inesistenti. Non lo so. Forse sarà così, o forse, tuo figlio condividerà le stesse nevrosi di tutti gli altri. Magari di più, in fondo, è tuo figlio. La verità che mi pare di aver colto in tutto questo casino della genitorialità, è che qualunque cosa tu scelga di fare, alla fine, sbagli e allora, magari, vale la pena di ridimensionare le tue ansie, amica. Forse, l’importante è l’essenziale e l’essenziale, dovrebbe essere, preoccuparsi di non crescere un serial killer. O sbaglio?

E per quello che riguarda te, amica, versati pure da bere non è stasera che cambierà la tua vita. In realtà non deve nemmeno cambiare. Devi darti tempo. Hai scelto di amare, allora ama, fallo con il cuore.

Il tuo cuore batte circa centoquattromila volte in un solo giorno. Sembravano di più, non pensi? Ogni singolo battito del tuo cuore è prezioso, non devi sprecarlo in inutili paragoni con il resto del mondo. Tu sei unica e unico è il battito del tuo cuore. Un ritmo inimitabile. Seguilo.
Ognuno danza col suo cuore, anche tu.

Con amore,
Michela

PS Buona fine dell'anno scolastico. Ora saranno cazzi, ma quando i giochi si fanno duri, le dure cominciano a giocare.

venerdì 18 maggio 2018

Amore, maionese e bulimia.

Certi amori sono come la maionese.
Non è che tu abbia spazio per alcun dubbio. Lo sai. Lo sai con matematica certezza che, la maionese, è cibo spazzatura, nuoce alla tua salute, eppure, è il tuo cibo preferito. Non c’è un cazzo da fare. Che poi non è che tu sia una che mangia solo junkie food. Tre anni fa, per esempio, eri decisa. Eri sposata, una lattante all’attivo; sentivi che era arrivato il momento per diventare vegana. Lo avevi sempre sognato. Così hai deciso di studiare. Hai comprato manuali su manuali di cucina vegana. Tu, che in vita tua avevi solo aperto scatolette, ora parlavi di erba spirulina e zenzero come non avessi mangiato altro in tutta la tua vita. Hai comprato un estrattore, a freddo, ovvio, lo sanno tutti che la centrifuga a caldo distrugge molecole e vitamine e ti sei lanciata nel tunnel degli estratti verdi per due mesi o giù di lì, poi un giorno hai aperto il frigorifero, ti sei fiondata su maionese e birra e sei tornata in te, bye bye vegan!
Insomma, lo sai che potresti, dovresti mangiare altro e, se ti concentri, per un po’, lo fai. Cibo green, cibo pulito, organico, bio a chilometro zero. Cibo proteico che nutra te, i tuoi muscoli, la tua autostima e il tuo amor proprio, eppure, arriva sempre il momento in cui apri il frigo, e non puoi, forse non vuoi, -chi sei tu per giudicare-, resistere.
Ognuno ha la sua debolezza, la mia (e quella di mia sorella maggiore, buon sangue non mente) è la maionese, forse tu sei più da gelato o da nutella. Magari c’è qualcuno tra voi che leggete, che è da patatine in busta (io non mi faccio mancare nemmeno quella) e chi, invece, potrebbe nutrirsi solo di pizza. Quello che conta è che, ognuno di noi, ha almeno un cibo spazzatura che rappresenti al meglio, anche il rapporto con quello che in noi si traduce come l’amore inarrivabile, quello impossibile. Qualunque sia la tua età, sai di cosa sto parlando. Ammettilo.
Hai presente? La sensazione di fame atavica. La voragine tra petto e bocca dello stomaco. Quel vuoto insaziabile, la bulimia che ti fa lanciare sul tuo cibo di conforto, al sicuro, dal mondo là fuori, brutto e cattivo. Certo, a volte ce la fai. Il frigo lo apri, guardi il barattolo e gli dici -“no, sono più forte io di te”! Ma quanta fatica fai?

Quelle come me, cresciute a pane, maionese e Mr Darcy sono intrinsecamente convinte che l’amore sia quello che ti prende la bulimia. Ti prende il vuoto. La pancia. Il guaio con l’amore bulimico è che dopo la scorpacciata arriva il senso di colpa. È così che a quasi trentasei anni scopri che tu la felicità, la colleghi alla malinconia, al senso di vuoto del post abbuffata. Sei felice per pochi istanti e poi sei nel pieno del tuo senso di colpa. Come se il solo fatto che TU possa essere felice a prescindere dal benessere di chi ti circonda, ti trasformasse in un essere abominevole. Sei felice e ti senti colpa. Il paradosso del benessere, giusto?

Che la bocca sia indolenzita alla fine di un bacio, o altrimenti che senso ha?
Buffo, vero? Come felicità e disperazione, in realtà tocchino le medesime corde in alcuni animi.

Non è bello essere come noi. Sentire lo stomaco chiuso a doppia mandata perché l’amore, o quello che credi tale, ti sta nutrendo da dentro e poi sentire la voragine quando tutto è finito. Qualcuno ci chiama sensation seekers, cercatori di sensazioni, svuotandoci un poco del nostro originario bisogno di sentire nel corpo che qualcosa, oltre noi, c’è.
Sarà che da linguista, gli anglismi mi stanno parecchio sul cazzo, ma l’idea di me che vado alla ricerca forsennata di sensazioni come fossero una dipendenza vera e propria, mi fa sentire parecchio superficiale.

Sarò una cacciatrice di emozioni, non lo so, quello che ho compreso su me e molti altri in relazione all’amore, è che non importa quanto la persona che ci sta di fronte sia straordinaria, quelli come noi, bruciano in fretta.
Non possiamo permetterci il lusso di bruciare le tappe. Non possiamo dire: “okay, facciamo che ci amiamo per sempre e andiamo a vivere insieme”. Per molte ragioni.

Primo siamo esseri che amano sulla distanza. Io ti amo, da lontano. Vi ricorda qualcuno?
Io ti amo quando ci incontriamo, rendiamo l’usuale straordinario e poi rientriamo nelle nostre vite. Io ti amo quando non mi poni nella condizione di aver paura che poi, alla fine, scapperò ancora. Io ti amo, se sei capace di non farmi bruciare le tappe. Di tenermi a freno e no, non ti chiedo di essere il mio baby sitter, ma se amore è reciprocità io, al limite, ti chiedo di aiutarmi a tenere il passo, perché tendo a correre e a sentire la stanchezza della corsa.
Un altro motivo è che ci prende la bulimia e, se la persona che abbiamo di fronte, non è più forte di noi, lo sentiamo. Noi vi annusiamo. Sentiamo l’amore e poi lo ricacciamo. Non è mancanza di rispetto nei vostri confronti è che siamo esseri imperfetti. Come voi, solo un po’ peggio.
E poi, per me e per tutte le madri single come me, c’è il motivo principale che sono i nostri figli ai quali, richiediamo una flessibilità emotiva quasi folle.
Ecco, ora che ci penso, i figli sono il nostro esempio perfetto di amore. Sapete perché quello è un amore che non brucia mai? Perché è un amore che abbiamo avuto la possibilità di conoscere con consapevolezza. Un giorno alla volta, per nove lunghi mesi. Ci hanno fatto soffrire per metterli al mondo, ce li siamo sudati, i nostri figli e poi, da quel giorno, ogni giorno, quando i loro piccoli occhietti assonnati si aprono, ci conquistano e ci danno la possibilità di innamorarci daccapo e, ciononostante, la natura non si imbroglia; quelle come me, sono madri che ogni mattino provano ad essere le fate madrine che pensano di dover essere e mentre la giornata trascorre lenta, il mostro ci prende di nuovo e tutto ciò che cerchiamo è la fuga dalla maternità e dalla frustrazione di non essere abbastanza. Non è forse amore questo? Alcuni risponderebbero di no, invece, lo è. È l’amore assoluto. Quando conosci la battaglia di una persona così, o la accetti o scappi via e, qualunque strada tu scelga, andrà bene. Io, per esempio, non penso che starei mai, con una come me. Una volta qualcuno mi ha detto che lui ha scelto di essere felice, io ho trascorso molti giorni a seguire ad interrogarmi sul perché io non fossi in grado di esserlo. Ho pensato subito che il mio malumore congenito e la mia onnipresente malinconia fossero solo altri due difetti da aggiungere alla mia lista nera. Quella lista che ognuno di noi ha di se stesso e che tiene ben nascosta.
Poi, da qualche parte ho letto una cosa che mi ha fatta piangere molto e mi ha ricordato, che le parole non vengono mai per caso. Come le persone, arrivano quando dovevano arrivare.

Era la sua malinconia che m’incantava, una malinconia che lui non cercava di sconfiggere, una malinconia duratura e persistente, arrivata per restare. Quella condizione insana che chiama a sé fantasmi e apre la strada a convinzioni dure come la pietra. Così diversa dalla mia condizione, che non si poteva nemmeno chiamare malinconia –forse insoddisfazione o debolezza. Saldaña Paris era veramente malinconico: un uomo d’altri tempi che viveva imprigionato in questo; un uomo d’epoca in cui la felicità non era obbligo, ma la fortuna di qualche stupido

Settimane fa mia sorella maggiore, che mi ama a prescindere da me come i miei altri fratelli scelerati nel volermi bene, ma sempre puntuali nel cercare di trascinarmi con i piedi per terra, mi ha detto che l’amore impossibile, a suo parere, è un’esperienza che esiste nella vita di ogni essere umano che tal si dica, ma che in qualche modo, ad un certo punto, bisogno decidere se si voglia o meno vivere di follia o di ragione e, soprattutto, se si voglia o meno vivere di mal di stomaco, labbra intorpidite e vuoti e pieni altalenanti. Vuoi crescere o rimanere immatura? Era un po’ questo che la mia mente pensava, mentre mia sorella parlava con la sua calda voce di casa. Vuoi dare una stabilità a tua figlia, o vuoi continuare a farla vivere nel tuo stesso caos emotivo? Forse, voleva dirmi questo. Non credo, perché mia sorella è una che non vive secondo i codici morali della folla. Poi ho capito. La stabilità di Virginia è in me, non in un rapporto con un altro uomo. Quella è roba che ho in mente io, di certo non lei.
Vuoi ancora continuare a mangiare la maionese, o invece, vuoi accettare che la maionese ti fa male ed è tempo di mangiare cibo più equilibrato? Sono tutte domande che vagano veloci nella mia mente. Un flipper infernale. Risposte non ne ho. Non ne ho e va bene così.
Forse, non è ancora arrivato il momento per me per ricevere risposte. Forse, è solo tempo di pormi domande, forse, è solo tempo di fermare il cuore e lavorare sul meraviglioso cubo di Rubik che è l’amore quando entra in contatto con me.
Arriverà il tempo della stabilità arriverà.

mercoledì 2 maggio 2018

Di yogi e di felicità.

Cose di cui ho paura:
dei vuoti
dei pieni
delle maree interne e di quelle esterne
della stabilità, ma anche dell’immobilità
degli amori a metà
della mia età
della famiglia
della necessità di amare
della capacità di restare e dell’impellenza di andare
dei ricordi che sono più numerosi dei sogni
dei progetti che si esauriscono lungo l’arco di un caffè
della mia identità, quella persa e quella che verrà
del silenzio che non riesce a stare zitto. Mai.
Della mia mente che cerca un modo per spengere tutto.
Della cassa di risonanza che ho al posto dello sterno, che ingabbia, amplifica e caratterizza ogni singola emozione che l’attraversa.
Del sole che non scalda abbastanza e del vento che mi scompiglia i pensieri.

Questa è una lista più o meno accurata delle mie più grandi paure. Di quei post it che nei film americani, la protagonista appenderebbe al frigorifero, stilerebbe un piano per superarlo e, paura dopo paura, avventura dopo avventura, amore dopo amore, alla fine, le supererebbe tutte. Ma questo non è un film e se lo fosse, mi farei rimborsare il biglietto perché, che senso ha guardare un film senza lieto fine? Io le mie paure, di solito, le evito accuratamente e, sono così brava a farlo che ho impiegato circa 36 anni a metterle in ordine nella testa e sul foglio. Le paure si affrontano, poi ci siamo noi che le nutriamo per bene fino a farci controllare. Quelli come noi, hanno ampi momenti di vita e lunghissimi declini. Momenti che ciclicamente tornano a farci male, vero? Ci sono giorni che vorrei scrivere, sento il flusso delle parole gorgogliare a fior di pelle, eppure, non una parola viene fuori. Sono quei giorni in cui mi prudono i pensieri. Sono quei giorni in cui metto tutto in discussione, me, le mie scelte, le mie pseudo certezze. Quei giorni in cui i dubbi mi attanagliano e non mi fanno vedere chiaro o, forse, vedo così chiaro da capire che non mi è dato sapere, ché la verità non esiste e più dubiti, più sai. Interrogarsi va bene, ma farlo dovrebbe significare accettare che le risposte, a volte arrivano, altre no e, quando questo capita, bisognerebbe mettervi un punto, inspirare forte e guardare altrove come quando diventi madre e devi per forza uscire dalla fase del perché e darti una mossa per trovare, invece, le risposte ai perché di tua figlia.

V- “oggi ero al Comune con papà e ho visto una sposa”
Io- “davvero? Che bello”!
V- “tu dove ti sei sposata? Al Comune”?
Io- “in chiesa”
V- “perché quella sposa non si è sposata in chiesa”?
Io- “forse non crede in Dio”?
V- “Tu credi in Dio, mamma”?
Io- “Sì, ci credo” (bugia numero uno o, forse, verità in cerca di conferme)
V- “perché quella sposa non crede in Dio”?
Io- “perché alcuni credono in Budda, altri in Allah, altri in Geova e, alcuni, in nessuno. È una scelta”
V- “non credere in nessuno può essere una buona scelta per la tua vita”?
Io- “Sì, può esserlo, se ti basta”
V- “A te basta credere in Dio”?
Io- “Sì, mi basta” (bugia numero due, non mi basta affatto e, infatti, ancora mi domando se io ci creda o meno)
V- “ perché ti basta”?
Io- “perché, amore, ci sono delle cose che non si possono spiegare e,questo, ci aiuta ad accettare tutte le risposte che ci vengono dal cuore”
V- “perché”?
Io- “Tu credi a Babbo Natale”?
V- “sì, ci credo”
Io- “perché credi a Babbo Natale”?
V- “non lo so, perché mi porta i regali credo”
Io- “ e ti basta questo per crederci”?
V- “Sì, e la Befana”
Io- “ecco, con Dio più o meno, funziona così, come con Babbo Natale”

Seguono attimi di silenzio in cui quasi mi pare di vedere gli ingranaggi del suo meraviglioso, nuovo cervello scevro da schemi e categorie mentali arrovellarsi veloci per mettere in ordine le nostre chiacchiere.

V- “mamma…”
Io-“Sì, Virginia…”(esausta)
V- “Allora, Babbo Natale è Dio”?
Io-“Sì, Virginia. Babbo Natale è Dio”

Ecco, Babbo Natale è Dio; a me piace pensare che risposte del genere, possano bastare non tanto alla nostra insaziabile curiosità, quanto al nostro desiderio di sentirci al sicuro. Mi piace pensare che le mie risposte possano essere la sua coperta di Linus.
Dicono che Virginia assomigli tutta al padre. A volte quando la guardo, mi sembra pericolosamente vicina a me. Lo sguardo serio, l’atteggiamento contrito di chi non ha bisogno di nessuno e, invece, diamine cosa darebbe per sentirsi amata. L’eterna incompresa. Se da un lato mi risulta facile capire i moti del suo cuore tenebroso, dall’altro vorrei che seguisse strade molto lontane dalla mia. Anche questo è un atteggiamento immaturo ed egoista, lo so. Siamo quel che siamo e il tentativo di cambiare la sua natura perché so che sarà difficile da gestire, la dice lunga su che tipo di madre io sia.
Sono fatta di pieni e di vuoti. Di piene e di arsure, se volete usare termini meno destabilizzanti. Un’eterna altalena diabolica che non mi concede la stasi. Il problema è quando entro in contatto con i pieni, perché i vuoti mi diventano insopportabili. Per questo mi tengo distante. Per questo evito. Per questo l’amore nella mia vita è una battaglia. Per questo io non posso fermarmi. Per questo non vi ascolto e, invece, vi sento. Tutto nella mia esistenza è teso ad evitare i vuoti che mi annichiliscono. Le piene sono difficili da gestire. Tutto è accelerato. Tutto è idealizzato. Tutto è portato all’estremo, così tanto, che non riesci a vederne il confine. Tanto che non riesci a capire se quello che provi è reale. E quando arrivano i vuoti, le arsure, tutto si fa pesante e il mondo ti schiaccia. La chiamano vita, giusto? Eppure mi risulta impossibile. Mi sento una maratoneta e i metri si fanno chilometri impossibili da coprire. Le gambe pesanti come due tronchi, il corpo che non risponde ai comandi, la mente che non sa più gestire la più semplice delle conversazioni e la gente, la gente mi affatica. Parlare loro. Intrattenerli, quando l’unica cosa che vorrei è spegnere la luce sul mondo e andare a dormire un sonno che mi rinfranchi dall’essere viva e il suo dannato peso. La chiamano vita e, allora, cerco un modo per viverla.
Conosco un uomo meraviglioso che ritiene di essere in possesso della ricetta per la felicità. Te la racconta e quasi ti convince sia semplice essere felici. Basta sorridere.
Lui sceglie di essere felice, che uno pensa:-e che ci vuole? Ora scelgo anche io. E, invece, non è così. La felicità, è un’arte. Complessa, peraltro. Non puoi scegliere di accendere e spegnere la felicità, perché quella, al limite, la chiami gioia. Devi scegliere di essere felice anche quando non hai un motivo che sia uno e tutto intorno a te crolla. Allora mi sono detta, bene faccio una lista e vedo se ho, almeno, le carte in regola per essere felice e, se scopro di non averle, mi sposto. Non sono un albero, infondo.
1) Mi piace quello che faccio per vivere? Anche se non è il lavoro dei miei sogni, almeno, mi trasmette l’energia e la voglia di alzarmi al mattino?
2) Mi piace dove mi trovo?
3) Sono felice di trascorrere del tempo con gli amici che ho?
4) Mi da piacere compiere le operazioni più basilari di una giornata, come ad esempio, cucinare un buon pasto caldo per me o per mia figlia?

Le mie, non sono state risposte positive e allora, mi sono detta, magari non sono tagliata per questo tipo di felicità, ma se non questa, allora quale? Quanti tipi di felicità esistono, poi?

A me la felicità arriva in fasi di piena creativa. Quando scrivo, ma non solo. Quando leggo e mi vien voglia di scrivere e superare le parole del giorno prima. Quando penso a cosa scrivere, quando qualcuno mi dice:-sai, ho letto quello che hai scritto. Io sono felice. Io sono. Io legittimo la mia ragione di esistere attraverso la felicità che mi procura lo scrivere.
Scrivo, quindi, sono… felice.
Ma la mia piena dura sempre poco, perché richiede fatica. La felicità, richiede costanza e fatica. È un lavoro a tempo pieno. Come quando inizi a praticare Yoga e sei l’ultimo membro del corso, tutti già nella posizione dello scorpione e tu hai solo voglia di urlare perché quel silenzio, quella fatica ti inchioda al tappetino di gomma dove ti viene richiesto di provare e di ascoltare, te, il tuo respiro e tutto il mondo intorno. Ecco, il cammino di un vero yogi richiede pratica ed esercizio fino alla tomba. Analogamente, la felicità vera, quella imperturbabile perché interna al tuo io, non fa sconti e richiede la tua presenza costante. Da qualche tempo ho deciso che io voglio essere yogi della felicità. Voglio dire, è altamente improbabile che nel futuro prossimo io riesca nella posizione dello scorpione, ma alla fine state certi che ci riuscirò, perché vedete, la questione è universale. In definitiva, non credo di essere originale neppure nel non riuscire ad essere felice, perché sono sbagliata io, non la felicità, vi ricorda forse qualcuno? In molti, sono sicura, condividono questo sentimento da border sempre all’erta. Sono piena, come molti altri di voi, di zone d’ombra. Ormai mi è chiaro. La natura non la cambi, ma impari a conoscerla e, si spera, ad arginarla. Ho una scala di valori molto disordinata che, in definitiva, cambia insieme al ciclo lunare. Con la maturità, ho imparato che le mie lune devo assecondarle.Come le stagioni, qui sulla Terra. Io sono il pianeta di me stessa. Non sono un satellite, non più. Non ho più voglia, né tempo, per inseguire. Dunque, l’unica strada per me percorribile, è andare dritto al mio nucleo e invertire la mia stessa rotazione. Il segreto, mi sono detta più volte, è tutto lì. Arrivare al nucleo e invertire la rotazione. Io ci credo e dovreste anche voi. Dovremmo tutti capire che siamo noi e solo noi, il centro del nostro tutto.

E allora sì che sarò felice, in qualche modo, un giorno.
Con i miei disordini, i miei tumulti e le mie parole sparse al vento.