giovedì 19 marzo 2020

Della Primavera al tempo del Coronavirus

“Sono molto irrequieta quando mi legano allo spazio”.

Alda Merini



Oggi è l’undicesimo giorno di quarantena, non so ancora bene cosa stia accadendo dentro me.
Sono milioni, le notizie più disparate e contradditorie, che mi ronzano nel cervello. Una violenza visiva, di immagini, che sembrano montate da un professionista del cinema di fantascienza e, una violenza verbale, di voci, che urlano parole di terrore, di panico e di odio. Non faccio che chiedermi se non sia, in fondo, giusto quello che sta accadendo. L’unico modo lasciato alla natura per pareggiare i conti e ricominciare.
Sono giorni lunghissimi che volgono al termine in un lampo, io imparo a riprendermi il mio tempo.

Tempo per non sapere più che giorno è.
Tempo per non puntare più la sveglia e accettare che il mio corpo sa meglio delle lancette quando ha finito di riposare.
Tempo per non far niente. Senza bisogno di correre ad occupare quell’unità di tempo rimasta scoperta. Tempo per stare nel vuoto, in silenzio, a scandagliare la vita nuova che la natura mi sta offrendo.
Tempo per capire che la vita conosce sempre la via. Anche quando sembra che non sia così.
Tempo per essere grata di poter guardare la mia bambina crescere, come fossi l’unica spettatrice del più grande spettacolo mai visto prima.
Tempo per ascoltare.

Ascoltare, che non è scontato come sembra.
Ascoltare mia figlia, per davvero, senza impegni che si frappongono tra me, lei e tutte le parole che ha nel cuore (Dio se ne ha tante :) ).
Ascoltare le mie mani impastare, per la prima volta, il cibo che nutre me, mia figlia e, mentre impasto, sentire dal centro perfetto del mio corpo, quella inequivocabile, rasserenante sensazione che ne usciremo più consapevoli, più saggi, in una parola: migliori. Tutti. Sentire tra la farina e l’acqua, una nuova me prendere forma.
Ascoltare i rumori della casa. Raccontano di spazi che non ricordavo più di poter abitare, senza te. Scoprire, invece, che dove non ci sei tu, ci sono ancora io. Il prolungamento di me. Nutrire la certezza che basto a me stessa.
Ascoltare le giornate di vicini, che non sapevo nemmeno di avere. Imparare a riconoscerne la voce, le abitudini, gli orari e i gusti musicali.
Ascoltare le idee che mi sedimentano in testa, si fanno nuove, eccitanti conoscenze di parti di me mai incontrate prima, ma anche di chi sono stata e non voglio più essere, chi sono ora e dove voglio andare.
Ascoltare la forza che mi muove nella vita: l’amore. Amore che la gente non comprende, giudica e, invece, vale sempre la pena vivere.
Ascoltare il mio fiume interno e accettare che va dove vuole andare, scava il suo letto e procede spedito al suo mare. Anni spesi a diventare la migliore versione del personaggio che la vita mi aveva assegnato, anni spesi, poi, a soffrire per la mia incapacità di stare comoda nei panni che mi erano stati dati.
In questi giorni, quindi, ritrovarmi. Scoprire che non me n’ero mai andata, ero solo inabissata nelle acque del mio fiume da dove provavo a chiamarmi invano, ché i suoni del mondo in cui ero stata scaraventata, coprivano la mia stessa voce.
Ascoltare il mio corpo, da sola, sul tappetino.

In questi giorni di quiete, in cui pratico in solitudine, non ascolto nemmeno la musica, ascolto solo il mio respiro, fluire sempre pari. Con uguale intensità entra nei polmoni, li riempie, li espande e, con uguale intensità, il respiro esce, portando via con sé il tempo. Imparo, in questi giorni, a non dare mai più per scontata l’aria, a ringraziare i miei polmoni per essere polmoni che hanno pianto tanto e ora sono più forti di prima.
In quel non tempo che è la mia pratica quotidiana, il mio corpo si svela in tutta la sua sacralità. Muscoli, microscopici filamenti di carne che tengono su un intero scheletro, un’intera esistenza. Mi raccontano chi sono oggi: una donna salda sul suo tappetino e nel mondo.
Mi insegnano che non devo aver paura di essere indipendente e che stare soli si può, senza sentirsi orfani.

È un non tempo, in un non luogo, questo che stiamo vivendo.
Lo avvertono i bambini e gli esercizi commerciali chiusi, le vetrine tristi, che non sanno più brillare.
Lo sanno le strade vuote. Lo sanno i mari, i laghi, i fiumi. Lo sanno i delfini, che per la prima volta, si azzardano a visitare la bellissima Venezia, con i suoi canali e la sempre eterna laguna.
Lo sanno i cinghiali, che non sentendo più il nostro ininterrotto vociare, si avventurano per le strade centrali della bella Sassari.
Lo sanno gli uccelli nei parchi. Lo sa il verde brillante del prato e il l’indaco del cielo di una Primavera, che così bella e accogliente, la ricordo solo da bambina.
La natura si riprende i suoi spazi. La natura si riprende il suo tempo e ci invita a fare lo stesso.

È Primavera.
È tempo di rinascita.
È tempo di spogliarsi di quegli strati, che ci hanno protetti dal lungo inverno. Strati fatti del superfluo.
È tempo questo di disfarsi dei bagagli. Bagagli di informazioni, che sovraccaricano la nostra capacità di concentrazione. Disfarsi della folle idea di dover tutti essere quelli degli -issimi. Bellissimi, intelligentissimi, ricchissimi, sportivissimi, preparatissimi.
È tempo di disfarsi, dell’ingenua e malsana idea, di avere cinquemila amici solo perché, un social network, ce la racconta così.
È tempo di coltivare.
Coltivare il proprio giardino. Quello della mente e quello di casa chi di noi può.
Coltivare la gentilezza che vince sempre sulla grettezza. Coltivare l’amore e coltivare i rapporti umani per cui vale la pena impegnarsi. Gli altri, lasciamoli andare. Non sono destinati a noi.
Coltivare il tempo, lo spazio.
Radicarsi nel qui e nell’ora, sintonizzarsi sulla frequenza del nostro cuore e sentirlo sussurrare

Io sono, io sono, io sono.

È tutto ciò che conta.

Om Shanti, Shanti, Shanti

M.