mercoledì 25 novembre 2020

Sulla quantica di noi stessi e la realtà che ci circonda.

Carl Jung affermava che l’incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche: se avviene una qualche reazione, entrambe saranno trasformate. Per sempre. Questa grande verità è la base di tutta l’esperienza di vita su questa Terra. Oltre i confini della fisica, nel pieno della quantistica, sappiamo ormai senza alcun dubbio che alla base della materia ci sono le relazioni. In altre parole, una molecola può esperire la sua realtà, solo e unicamente attraverso la relazione che saprà instaurare con un’altra molecola. Allora, se tutto questo è vero, perché ci ostiniamo a credere di essere unidimensionali? Perché ci costa tanta fatica accettare che tutti, ma proprio tutti, viviamo una perenne dialettica interna? Veniamo educati al culto dell’ego fin da bambini e nel processo di crescita il bagaglio che ci portiamo sulle spalle di idee, di etichette che ci sono state affibbiate nel tempo diventa più imponente. Sei timida/o, sei matta/o, sei intelligente, sensibile, egoista. Così ci convinciamo di conoscerci tranne poi scoprire che, nella realtà, non abbiamo la minima idea di chi siamo nel fondo profondo di noi. Ho perso il conto delle volte in cui guardandomi attraverso lo sguardo di chi mi circondava pensavo sì, sono questa, ma sono anche questa e questa e questa. E più mi guardavo dai vostri occhi, più mi distaccavo da me tanto che a trentacinque anni non avevo più la minima idea di chi fossi. Vivevo in uno stato di annebbiamento continuo. Qualunque cosa facessi pensavo cose di questo genere: ma sono io a volerlo o è la Michela che vuole mia madre, mia sorella, mio padre, mio fratello, il mio ragazzo, la mia migliore amica, chiunque, ma non la vera me? Qualcuno ci si riconosce? Mia madre. Il capitolo più corposo della mia biografia. Mia madre è stata ed è la migliore madre che potesse essere. Sempre, anche quando credeva di sbagliare, in realtà stava facendo l’unica cosa che potesse fare in quel momento. Essere genitori significa molte cose. Mi è più chiaro, ora che sono madre da un tempo ragionevolmente lungo. Soprattutto vuol dire dare sempre il meglio di sé, anche quando pensi di essere al peggio di te. Essere lo specchio pulito nel quale tuo figlio guarda. Essere la donna che mia figlia riceve come primo modello. Un modello che nell’adolescenza o forse più in là, lei ripudierà, ma al quale poi tornerà. Dentro me convivono molte Michela. Ho impiegato svariati anni e parecchie centinaia di euro in terapia per accettarlo. Mi duole dire che, nel mio caso specifico, la chiave di volta non è stata la terapia, non perché io creda sia la scelta sbagliata in assoluto, ma perché non mi sono mai posta in una posizione relazionale col mio terapeuta, di conseguenza, qualunque tentativo di comunicazione da parte sua era sempre un completo fallimento.Non ascoltavo. Li vivevo come persone da dover accontentare dicendo loro ciò che pensavo volessero sentire e, in fondo, è ciò che ho sempre fatto con tutti. La mia chiave di volta, come molti di voi sanno, è stato il tappetino di yoga dove ogni giorno sono in relazione con me stessa e con la realtà che mi circonda. Sul tappetino, ho scoperto come accendere il canale uditorio e quello percettivo e come spegnere il mio cervello e le idee a lui avvinghiate. Sul tappetino ho imparato ad osservare. Non importa come, importa che ora sono consapevole della mia molteplicità e che tutti funzioniamo come multipli. Così ho imparato a concedermi il lusso delle delusioni. Dentro me c’è la piccola Michela. Ha subito un abbandono, necessita di ricordarlo e validarlo ogni giorno per non sentire ancora il torto e l’offesa subita. C’è la Michela moglie che non riesce a darsi pace perché non è capace di stare in un’unione normale con un uomo. La Michela che soffre perché ogni persona fino ad oggi incontrata la colpevolizza di essere complicata in amore, in amicizia, in famiglia. C’è la Michela con le manie di controllo che ha bisogno di gestire tutto e tutti. Ci sono parti oscure dentro ognuno di noi. Parti di cui ci vergogniamo e che cerchiamo di nascondere alla vista del mondo. Parti che saremmo disposti a fare di tutto per gestirle, anestetizzarle, ammutolirle, spegnerle. E in ognuno di noi c’è un impietoso giudice interno. Spesso le due parti sono in conflitto. Il giudice non riesce a tenere a bada il bambino umiliato che irrompe nel mezzo di situazioni delicate della nostra vita a richiedere che sia riconosciuto quel dolore. Allora, interviene una terza parte, ben più pericolosa delle prime due: il pilota automatico. Lo riconoscete? Quello che mantiene viva la memoria del dolore dentro noi. Quello che: io questo dolore non lo voglio vivere ancora una volta e allora azzera tutto . Ci spegne il cervello e si mette in un’unica modalità: EVITARE IL DOLORE e diamine ci riesce sempre. Ognuno col suo modo. Non è forse vero? Un bicchiere di troppo, sostanze stupefacenti, sesso promiscuo, sesso estremo, porno, stalking, bulimia, anoressia, rompere con chi ami prima che rompa lui/lei con te, prenderti cura di tutti quelli che ti circondano eccezion fatta per te stesso. Ne potrei nominare molte altre. La maggior parte di noi convive con una personalità da dipendenza senza nemmeno averne idea. E le dipendenze non sono solo quelle del tossicodipendente per cui risulta necessaria la riabilitazione Le dipendenze sono reazioni di difesa. Sono richieste di aiuto da noi, per noi. È la parte di noi che ci chiede di spegnere il dolore. Quindi che si fa? Ci lasciamo andare alle dipendenze e agli estremi per distrarre il nostro cervello dal dolore? Per stordire la sofferenza? Ovviamente, no. Tuttavia, ho imparato che riconoscere la mia personale tendenza all’autodistruzione e all’autosabotaggio è il primo passo per tenermi sana e equilibrata. Diventare madre lungo questo processo, mi ha fatta sbandare in principio, ma poi mi ha aiutata perché mi tiene sempre attenta su che tipo di donna voglia essere per onorare mia figlia e cercare di darle il buon esempio. Ecco, credo che questo sia un buon esercizio che tutti dovremmo fare con o senza figli. Che tipo di persona vuoi essere per onorare te stesso e la vita che ti è stato concesso di vivere? La buona notizia è che tutti abbiamo al nucleo di noi, strato dopo strato, al netto del bambino, del giudice, dell’autolesionista, un adulto che può gestire la nostra molteplicità. Possiamo essere noi stessi nostri genitori. La nostra natura è mutevole e molteplice, cambia nel corso delle relazioni che instauriamo con l’altro. Tutte queste nature, possono coesistere. Dobbiamo solo imparare ad essere più compassionevoli con noi stessi. Dobbiamo imparare ad amarci, a perdonarci. Guardarci allo specchio e dire a noi stessi: io posso aiutare me stesso. Vuol dire uscire dall’obsoleta idea di noi come un’entità statica e monolitica che ci viene data alla nascita e, capire, che quella con noi stessi è la prima relazione sulla quale siamo obbligati a lavorare fino alla fine dei nostri giorni. Vuol dire non avere paura di chiederci: chi sono io? Andare alla scoperta di noi ogni, singolo, giorno. HAMSA

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