mercoledì 25 novembre 2020

Sulla quantica di noi stessi e la realtà che ci circonda.

Carl Jung affermava che l’incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche: se avviene una qualche reazione, entrambe saranno trasformate. Per sempre. Questa grande verità è la base di tutta l’esperienza di vita su questa Terra. Oltre i confini della fisica, nel pieno della quantistica, sappiamo ormai senza alcun dubbio che alla base della materia ci sono le relazioni. In altre parole, una molecola può esperire la sua realtà, solo e unicamente attraverso la relazione che saprà instaurare con un’altra molecola. Allora, se tutto questo è vero, perché ci ostiniamo a credere di essere unidimensionali? Perché ci costa tanta fatica accettare che tutti, ma proprio tutti, viviamo una perenne dialettica interna? Veniamo educati al culto dell’ego fin da bambini e nel processo di crescita il bagaglio che ci portiamo sulle spalle di idee, di etichette che ci sono state affibbiate nel tempo diventa più imponente. Sei timida/o, sei matta/o, sei intelligente, sensibile, egoista. Così ci convinciamo di conoscerci tranne poi scoprire che, nella realtà, non abbiamo la minima idea di chi siamo nel fondo profondo di noi. Ho perso il conto delle volte in cui guardandomi attraverso lo sguardo di chi mi circondava pensavo sì, sono questa, ma sono anche questa e questa e questa. E più mi guardavo dai vostri occhi, più mi distaccavo da me tanto che a trentacinque anni non avevo più la minima idea di chi fossi. Vivevo in uno stato di annebbiamento continuo. Qualunque cosa facessi pensavo cose di questo genere: ma sono io a volerlo o è la Michela che vuole mia madre, mia sorella, mio padre, mio fratello, il mio ragazzo, la mia migliore amica, chiunque, ma non la vera me? Qualcuno ci si riconosce? Mia madre. Il capitolo più corposo della mia biografia. Mia madre è stata ed è la migliore madre che potesse essere. Sempre, anche quando credeva di sbagliare, in realtà stava facendo l’unica cosa che potesse fare in quel momento. Essere genitori significa molte cose. Mi è più chiaro, ora che sono madre da un tempo ragionevolmente lungo. Soprattutto vuol dire dare sempre il meglio di sé, anche quando pensi di essere al peggio di te. Essere lo specchio pulito nel quale tuo figlio guarda. Essere la donna che mia figlia riceve come primo modello. Un modello che nell’adolescenza o forse più in là, lei ripudierà, ma al quale poi tornerà. Dentro me convivono molte Michela. Ho impiegato svariati anni e parecchie centinaia di euro in terapia per accettarlo. Mi duole dire che, nel mio caso specifico, la chiave di volta non è stata la terapia, non perché io creda sia la scelta sbagliata in assoluto, ma perché non mi sono mai posta in una posizione relazionale col mio terapeuta, di conseguenza, qualunque tentativo di comunicazione da parte sua era sempre un completo fallimento.Non ascoltavo. Li vivevo come persone da dover accontentare dicendo loro ciò che pensavo volessero sentire e, in fondo, è ciò che ho sempre fatto con tutti. La mia chiave di volta, come molti di voi sanno, è stato il tappetino di yoga dove ogni giorno sono in relazione con me stessa e con la realtà che mi circonda. Sul tappetino, ho scoperto come accendere il canale uditorio e quello percettivo e come spegnere il mio cervello e le idee a lui avvinghiate. Sul tappetino ho imparato ad osservare. Non importa come, importa che ora sono consapevole della mia molteplicità e che tutti funzioniamo come multipli. Così ho imparato a concedermi il lusso delle delusioni. Dentro me c’è la piccola Michela. Ha subito un abbandono, necessita di ricordarlo e validarlo ogni giorno per non sentire ancora il torto e l’offesa subita. C’è la Michela moglie che non riesce a darsi pace perché non è capace di stare in un’unione normale con un uomo. La Michela che soffre perché ogni persona fino ad oggi incontrata la colpevolizza di essere complicata in amore, in amicizia, in famiglia. C’è la Michela con le manie di controllo che ha bisogno di gestire tutto e tutti. Ci sono parti oscure dentro ognuno di noi. Parti di cui ci vergogniamo e che cerchiamo di nascondere alla vista del mondo. Parti che saremmo disposti a fare di tutto per gestirle, anestetizzarle, ammutolirle, spegnerle. E in ognuno di noi c’è un impietoso giudice interno. Spesso le due parti sono in conflitto. Il giudice non riesce a tenere a bada il bambino umiliato che irrompe nel mezzo di situazioni delicate della nostra vita a richiedere che sia riconosciuto quel dolore. Allora, interviene una terza parte, ben più pericolosa delle prime due: il pilota automatico. Lo riconoscete? Quello che mantiene viva la memoria del dolore dentro noi. Quello che: io questo dolore non lo voglio vivere ancora una volta e allora azzera tutto . Ci spegne il cervello e si mette in un’unica modalità: EVITARE IL DOLORE e diamine ci riesce sempre. Ognuno col suo modo. Non è forse vero? Un bicchiere di troppo, sostanze stupefacenti, sesso promiscuo, sesso estremo, porno, stalking, bulimia, anoressia, rompere con chi ami prima che rompa lui/lei con te, prenderti cura di tutti quelli che ti circondano eccezion fatta per te stesso. Ne potrei nominare molte altre. La maggior parte di noi convive con una personalità da dipendenza senza nemmeno averne idea. E le dipendenze non sono solo quelle del tossicodipendente per cui risulta necessaria la riabilitazione Le dipendenze sono reazioni di difesa. Sono richieste di aiuto da noi, per noi. È la parte di noi che ci chiede di spegnere il dolore. Quindi che si fa? Ci lasciamo andare alle dipendenze e agli estremi per distrarre il nostro cervello dal dolore? Per stordire la sofferenza? Ovviamente, no. Tuttavia, ho imparato che riconoscere la mia personale tendenza all’autodistruzione e all’autosabotaggio è il primo passo per tenermi sana e equilibrata. Diventare madre lungo questo processo, mi ha fatta sbandare in principio, ma poi mi ha aiutata perché mi tiene sempre attenta su che tipo di donna voglia essere per onorare mia figlia e cercare di darle il buon esempio. Ecco, credo che questo sia un buon esercizio che tutti dovremmo fare con o senza figli. Che tipo di persona vuoi essere per onorare te stesso e la vita che ti è stato concesso di vivere? La buona notizia è che tutti abbiamo al nucleo di noi, strato dopo strato, al netto del bambino, del giudice, dell’autolesionista, un adulto che può gestire la nostra molteplicità. Possiamo essere noi stessi nostri genitori. La nostra natura è mutevole e molteplice, cambia nel corso delle relazioni che instauriamo con l’altro. Tutte queste nature, possono coesistere. Dobbiamo solo imparare ad essere più compassionevoli con noi stessi. Dobbiamo imparare ad amarci, a perdonarci. Guardarci allo specchio e dire a noi stessi: io posso aiutare me stesso. Vuol dire uscire dall’obsoleta idea di noi come un’entità statica e monolitica che ci viene data alla nascita e, capire, che quella con noi stessi è la prima relazione sulla quale siamo obbligati a lavorare fino alla fine dei nostri giorni. Vuol dire non avere paura di chiederci: chi sono io? Andare alla scoperta di noi ogni, singolo, giorno. HAMSA

domenica 27 settembre 2020

Dell'autunno che insegna, le foglie che vanno e l'amore che resta.

L’autunno, come ogni anno, mi trova impreparata. 

L’aria si fa fresca, i colori più caldi. I profumi diventano pungenti, i tramonti improvvisi. Le ore si rincorrono e l’agenda si riempie.

Autunno, rallento nel corpo e provo, disperatamente, a rallentare nella mente. Provo a capire quali parti di me siano autentiche e quali, invece, una creazione del mio ego per compiacere gli altri.

È un autunno nuovo: imparo e disimparo chi sono.

Il primo da tanto nel quale non sento il peso di essere sola. 

Su questa strada che percorro da un po’ sento di essere così connessa alla terra che della solitudine non riesco ad avvertire più la presenza.

Ci hanno raccontato, che per non soffrire l’importante era non portare le nostre aspettative nelle relazioni e tutti noi, donne e uomini, ci siamo lanciati in relazioni basate sul vuoto cosmico. 

Tutti a sbandierare la nostra indipendenza, il nostro essere liberi da ogni tipo di legame. A cosa ci ha portati questo? Siamo forse più felici?

Tutti a nasconderci dietro l’apologia del dolore.  Il sillogismo perverso che giustifica una vita trascorsa nella potenzialità dell’essere felici senza però esserlo mai.

Io ho sofferto, quindi, ora tutti quelli che entreranno nella mia vita pagheranno per il dolore che mi ha provocato qualcun altro. Quanto saremo folli?

La natura invece ci insegna, se la sappiamo ascoltare, che il dolore è connaturato alla vita, che la fine non esiste e che, anzi, è solo un nuovo inizio. Non è forse questo l’autunno? Le foglie si riempiono di colore, cadono dagli alberi, preparandosi a diventare esse stesse, terra, vita. Dando così il via ad un nuovo ciclo.

Non è forse questo l’amore? La rigenerazione di un nuovo te.

Non è forse tutta la vita una preparazione alla fase successiva? 

Non è vero che non è giusto avere aspettative in una relazione. Quello che non è giusto, è avvicinarsi all’altro col carico di un passato non risolto sulle spalle. 

Non è giusto proiettare sull’altro la nostra necessità di sentire che abbiamo superato il dolore. 

Non è giusto fargli richiesta di certezze che non riguardano la coppia, ma le nostre vite come individui. Quelle, se proprio ne abbiamo bisogno, è compito nostro ricercarle.


È, invece, sano portare le giuste aspettative in una relazione.

Richiedere ad una relazione di farci sentire in un luogo sicuro, è giusto.

Richiedere ad una relazione il rispetto di noi stessi, è giusto.

Richiedere ad una relazione la fiducia verso l’altro, è giusto.

Richiedere ad una relazione onestà, è giusto.


Spesso rischiamo di confondere la necessaria consapevolezza di essere integri da soli, con l’inutilità dell’altro. Sentirsi super uomini e super donne che non hanno bisogno di nessuno, è un’altra illusione del nostro ego. Siamo esseri umani, siamo per natura predisposti all’altro. Se da un lato è vero che non abbiamo bisogno dell’altro per essere interi, dall’altro è vero che non c’è nulla di sbagliato nel vivere il nostro/a compagno/a come una fonte di gioia, di amore e di sicurezza.


Il punto della questione, terribilmente semplice se ci pensiamo, è che siamo vivi perché siamo come foglie su un albero che aspettano di cadere per poi rinascere. 

Possiamo chiamarlo come ci pare: guarire, crescere, tornare a noi stessi, evolvere; la verità è una: si chiama vita e non conta quanto decidiamo di impedirne il corso mettendoci il peso dell’ego che ci piace chiamare “ragione”, la vita accade e sa, prima di noi, cosa fare.

Per questo posso scegliere di lasciarti andare senza che il mio ego mi prenda a ceffoni. Per questo sorrido quando dici che entro nel mio mutismo. Vedi, non combatto più contro la vita. Ho fiducia che la vita è mia alleata. Ho fiducia che dare amore porti sempre e solo verso l’amore. Vorrei, Dio se lo vorrei, che fossi tu, ma sono consapevole che se così non dovesse essere, io sarò stata e resterò fedele a me stessa e al mio cuore.

Ho imparato che c’è un tempo per insistere e un tempo per andarsene. Raramente corrispondono a quello che ci sembra più semplice fare.

L’autunno insegna ad avere la saggezza di riconoscere entrambi.


Nel frattempo, prendo una sedia, mi metto a sedere e guardo le mie foglie andare.


martedì 22 settembre 2020

"Di yoga, di erbe, psiche e di omeopatia". Pensieri sparsi tra quattro stracci di Guccini e il giorno dopo le elezioni

Tutta la vita mi sono sentita isolata. Intrappolata in una terra desolata, inospitale, inarrivabile. 

Ho accettato per la maggior parte del tempo, che le persone mi dicessero chi ero, perché era più semplice dar loro quello che si aspettavano da me. Una storia vecchia come il mondo, vero? Non ho mai pensato di valere lo sforzo che la mia vita incasinata richiedeva, agli sventurati che si avvicinano, per conoscermi davvero. Per questo sentirmi incompresa e delusa, non mi feriva quanto avrebbe dovuto.

Ho trascorso più della metà della mia esistenza su questa Terra a mettere a tacere me stessa. Più la consapevolezza di me cercava di prender parola, più io le stringevo il collo. Una lotta estenuante, talmente serrata, che ad un certo punto, sono rimasta sola con voi altri e di me stessa mi sono dimenticata.

Ero disperatamente infelice però.

Continuamente come sott'acqua. La gola chiusa, per paura di vedere rotolare fuori dalla mia bocca, parole come perle da un'ostrica.

Avrei potuto continuare a vivere così? Me lo domando spesso. Conosco poche persone sincere con loro stesse. Conosco pochi individui che alla frase "io voglio essere felice", poi facciano corrispondere azioni reali, tese alla ricerca di quella cosa lì. Il nostro sacro Graal: la felicità.

Dicono esistano momenti cesoia nelle vite di tutti. In trentotto giri intorno al sole ne ho contati tre.

L'incontro con lo yoga è, certamente, uno di questi. Avvicinarmi al tappetino è stato un processo naturale. Questa disciplina che è l'Ashtanga Yoga sta lentamente cambiando tutto di me. Ha iniziato dal corpo, lo ha reso più forte e stabile e poi, come una goccia che consuma la roccia, ha scalfito la mia pelle e mi è entrato dentro, facendomi dono della cosa più preziosa che ho: il ricongiungimento con me stessa.

Sento piano, piano le resistenze del mondo venire meno e sparire ogni forma di violenza dalla mia vita. Anche le parole che affollano da sempre la mia mente, sono parole nuove. Rinnovate nella pura e semplice gentilezza. Non c'è violenza alcuna nei miei pensieri, nemmeno quando perdo la pazienza e non c'è violenza nei miei gesti. C'è una strada che percorro dall'esterno verso l'interno, svariate volte al giorno, dove mi prendo per mano e mi perdono per essere stata la peggiore e più mediocre versione di me. Mi perdono per aver lasciato che la violenza del mondo corrompesse le mie intenzioni. Mi perdono per non aver saputo ascoltare la mia voce che mi diceva chi ero e cosa volevo. Mi sono forse vergognata per non essere all'altezza della vita pragmatica che credevo (chissà poi perché) di dover vivere? Ancora non lo so. Ma non mi sono amata. Nemmeno guardare negli occhi mia figlia mi ha dato la misura di cosa potesse essere amare me stessa. Anzi, diventare madre mi ha resa ancora più inadeguata al ruolo di donna perché mi ha fatta sentire perennemente sullo scoccare di un gong. Gong! Tempo scaduto, sei diventata grande e non sai ancora chi sei.

Ma per fortuna dal fondo si risale. Ho scoperto che l'amore per me stessa è possibile, ora che mi conosco. Ora, che piuttosto che preoccuparmi di essere perfetta, mi preoccupo di essere intera. Ho scoperto che le mie zone d'ombra sono lì per aiutarmi a navigare questa vita. Tutto ciò che ho detto e fatto, mi ha portata dove sono: in un non luogo nel quale le mie ferite, le mie paure, le mie ansie, i miei demoni sono liberi di far chiasso. Il non luogo in cui do a tutti quanti loro il benvenuto, consento a tutti noi di respirare e, respiro dopo respiro, loro si calmano e la vita riprende da dove si è interrotta.

Forse è così che ci si ama? Attraverso l'accettazione anche un po' sbracata di sé stessi?! Non posso dire di aver trovato la risposta, ma credo sia l'unica opzione possibile per me. Ho dovuto accettare ogni parte di me per amarmi e non nascondo, che ancora mi risulta difficile. Sono ancora più numerosi i giorni nei quali mi sto cordialmente antipatica, ma a differenza di prima, mi accetto e so che domani, forse, mi troverò più tollerabile. 

Al punto in cui sono cerco di mantenermi salda nella mente e stabile nel corpo. Cerco di dimenticare la sensazione che mi ha sempre tenuta per mano d'essere un giunco al vento.

Faccio del mio meglio per volermi bene, per prendermi cura di me e per rispettarmi. Quest'ultima cosa, non mi riesce ancora molto bene. Ho idea sia un processo di apprendimento lungo una vita. Almeno quanto lo yoga. 

Moltissime sono le domande che mi pongo guardandoti.

Sono abbastanza intera da poter apportare dei benefici alla tua esistenza o, invece, rischio di rovinare il tuo equilibrio?

Posso regalare alla tua esistenza un'esperienza di amore puro, consapevole, adulto, libero dal senso di possesso e di narcisismo di noi esseri umani?

Posso darti serenità o ti chiamo alla guerra?

Posso offrirti tranquillità e godere della tua o ci ritroveremo in tempesta?

Posso guardarti essere immenso senza dover rendere me piccina?

Posso fidarmi del coraggio che ti ha mosso fino ad oggi nel mondo? Saresti ancora così coraggioso nel bel mezzo di me?

Non lo so. So qualcosa di nuovo però. Questa è una novità assoluta nella mia vita.

So che pormi queste domande è prova provata dell'essere diventata donna. 

So che ti lascerei vivere la tua vita per te stesso e nessun altro. So che non ti domanderei mai e poi mai di darmi conto delle tue scelte. 

So che ti starei accanto nel vuoto senza aver paura dell'eco dei nostri pensieri.

So che ti guarderei, come sempre faccio, negli occhi nella coscienza di ogni singola parola che ti dico. Nelle parole che non so frenare e ti fanno sentire nel marasma. Nelle parole che non ti hanno mai detto facendoti un torto ché avrebbero dovuto gridartele.

E so che ti vorrei sempre così: col sole in fronte. Grande come sei.





domenica 13 settembre 2020

Ogni cosa è illuminata. Ovvero, come l'amore ti leva i dubbi e ti trascina al centro di te.

 Il problema con quelli che dubitano è che, in realtà, non ricercano risposte.

Loro abitano l’incertezza. Se ne stanno lì, la mano sul mento a riflettere con lo sguardo perso verso il cielo. Hanno bisogno di credere che quel percorso neuronale li porterà dritti a una risposta. Sono sinceramente convinti che il dubbio, la crisi, il caos, siano propedeutici all’ordine, alla tranquillità, in una parola, alla certezza.

La vita mi ha insegnato che quando il dubbio si affaccia sulla certezza, è il mio tempo di andare.

Come nel cartone animato “Inside Out” Tristezza sfiora i ricordi e quelli, si colorano di blu, allo stesso modo, Dubbio sfiora una certezza e tutto intorno, crolla.

Non c’è altra possibilità in me.

Questa, è già la prima certezza. Forse, l’unica.

 

C’è stato un periodo in cui ricercavo certezze assolute, che mi tenessero al sicuro dalle tempeste di una mente amletica come la mia.

Alla ricerca del “certamente vero” ho fatto i più grandi errori della mia vita.

Poi ho capito.

C’è una parte di noi, che di fronte all’incertezza, comprende prima della mente, cosa stia accadendo.

È il nostro corpo sottile. Il canale ricettivo della nostra pelle.

È quel qualcosa, che si agita dentro noi e non ci da pace. È il tormento di non seguire il nostro istinto. Più cerchiamo di ammansire la bestia, più quella ci mangia da dentro. Vivi.

Guardando indietro, posso dire che alcune tra le fini più dolorose, hanno aperto il varco ad alcune delle gioie più profonde della mia esistenza.

La vita è un moto incessante in continua evoluzione e non possiamo esimerci dal viverla. Anche restando fermi, al sicuro, nelle nostre certezze, la vita accade, trova sempre il modo di mettere due persone destinate ad incontrarsi, l’una di fronte all’altra.

 La vita e il tormento di chi non segue il suo istinto.

 L’istinto, alla fine, ti prende e ti trascina esattamente dove devi essere.

 

Il cambiamento va assecondato. Non ci sono altre alternative possibili.

Lo so, quelli che dubitano ci devono comunque provare a frenare la vita. Fanno bene. Io ho smesso di fare Dulcinea però. Il Cavaliere Errante che non mi ha mai vista e mi trasforma in qualcosa che non sono, fingendo amore, lo lascio a chi nel dubbio non sa stare.

Mi fido della vita, invece.

Mi affido alla tempesta, invece.

Quando il cambiamento arriva, mollo gli ormeggi e lascio andare.

Lascio andare, perché restare ancorata al passato, non lascia spazio vitale ai nuovi inizi.

Lascio andare, perché ho fede che la vita mi darà tutto ciò di cui ho bisogno, per crescere e rialzarmi.

Lascio andare, perché nell’incertezza so che troverò paura e desiderio e tutto sarà chiaro. Suona ossimorico, lo so. Invece, è la dicotomia di tutte le nostre esistenze.

Lascio andare, perché aggrapparmi alle cose e alle persone che non sono più destinate a me, mi impedisce di credere in me stessa.

Lascio andare, perché perdere tutto, spesso, è la miglior cosa che possa mai accadere. Anche se fa male.


Non tutte le unioni sono destinate a durare, perché la verità è che molti di noi, si sposano per le ragioni più sbagliate.

Io mi sono sposata a ventinove anni con un ragazzo che, semplicemente, non era quello giusto. Non eravamo innamorati, ma lui mi faceva sentire al sicuro. Io che al sicuro non mi sono mai sentita in vita mia.

Non c’era quell’incastro perfetto di elementi, che ti fanno bruciare da dentro se non lo tocchi nello stesso istante in cui lo stai guardando. Non c’era quella chimica per la quale, anche i suoi difetti, sono qualcosa su cui scrivere poesie. Ma era il mio più vecchio e caro amico e, a quel tempo, io ero certa (avendo fugato ogni dubbio in me) che pur non avendo quel fuoco dentro, la nostra secolare amicizia, sarebbe bastata a tenere in piedi il nostro matrimonio. Poi è nata V e il mio corpo in un istante ha ricordato cosa fosse la furia dell’amore. Quello vero. Quello che non dubita, nemmeno se ti chiami Amleto.

Alla fine il mio matrimonio è deflagrato come una bomba all’interno di una camera da letto. Lanciando me al nord e lui al sud delle nostre vite. Ma l’amicizia, non ha fallito l’esame e da quella esplosione, siamo usciti ammaccati, ma vivi.

Vorrei poter dire che mi sia servito a capire chi ero. Non è così. Tuttavia, ha reso noto a me e a chi mi conosceva, che tra tutte le mie perversioni, quella che meglio mi riusciva era dissimulare l’amore per non rischiare di affrontare me stessa.

La mia tendenza a muovermi, a stordirmi pur di non guardare nella mia ferita ancestrale, hanno di nuovo lavorato da dentro. Così, ho sostituito a un matrimonio sbagliato, una convivenza affrettata con un uomo che ho amato intensamente, al quale però, non ho mai consentito un reale accesso dentro me.

Non potevo. Non ne avevo mai avuto uno nemmeno io stessa.

Alla fine quell’unione si sbriciolata in una furia di rancori, incomprensioni, raggiri e pulsioni di vita e morte.

Tutto intorno il nulla più profondo e macerie.

La fine di quell’unione, è stato il più grande dono per la mia crescita. Ho perso tutto quello che amavo e mi sono ritrovata in piedi, da sola, di fronte alle mie ferite più profonde.

Io e la mia paura dell’abbandono. Io e la mia paura di non essere amata. Io e la mia voragine, che per tutta la vita, avevo riempito di relazioni e cose per la paura di fermarmi.

Una volta andata in frantumi, il mio lavoro di guarigione è iniziato.

Per la prima volta in vita mia mi sono fermata e sono rimasta nel vuoto che ho sempre sentito.

Ho permesso a me stessa di rincontrare la ragazzina che mi porto dentro, perennemente offesa dalla consapevolezza di non essere nulla di speciale, se nemmeno suo padre, l' ama tanto da restare. Per la prima volta, mi sono concessa di ascoltare i miei sentimenti. Il lutto per la perdita di un amore così profondo che si ricongiungeva al lutto per la perdita dell’amore di mio padre. 

In quel frangente, mi sono rifiutata di riempire le buche dentro me e le ho lasciate scoperte così da cascare in ognuna di esse.

Ho fronteggiato la mia oscurità. Ho guardato in faccia la Michela che avevo fatto conoscere al mio ex e ho potuto guardare alla mia relazione con lui con lucidità. Due persone piene di dolore, con fantasmi impossibili da nascondere che cercavano di superare i traumi senza guardarsi dentro.

E, a due anni dalla nostra rottura, mi sono perdonata.

Non c’è vergogna nella fine.

Non c’è neppure fallimento nella fine di una relazione. C’è, però, possibilità di crescita, basta accettare di attraversare il dolore e accompagnarlo fuori dalla tua vita. 


Vedrai, una mattina accadrà qualcosa di veramente buffo e riprenderai a ridere. Ti volterai e incontrerai lo sguardo di un uomo. Lui ti guarderà, tu ti illuminerai tutta, come una torcia nella notte e sarà luce. Ogni cosa illuminata, in luoghi nascosti dentro te che nemmeno sapevi di avere e sarà la porta sulla nuova te. Sarai finalmente, inesorabilmente viva e incontrerai l’amore con occhi che sanno vedere. Quell’uomo confonderà ogni tua certezza e tu, comunque, non saprai mai più dubitare.

Perché l’amore è tutto, meno i dubbi.

sabato 15 agosto 2020

Di cuori pratici e lupi solitari.

Una cosa che tutti dovremmo capire è che, non importa quanto abbiamo sofferto, non è mai giusto lasciare la possibilità al nostro ego di prendere il controllo delle nostre esistenze.

Spesso, infatti, all’indomani di un cuore divelto, la risposta più immediata è trincerarsi in sé stessi, chiudere la porta del nostro mondo interiore con la quasi assoluta certezza, di voler e poter, bastare a sé stessi.

 

Scegliere di essere super indipendenti, abbarbicati sull’iceberg che abbiamo messo al posto del cuore, capitani del nostro vascello. Decidiamo di ricoprire il ruolo del lupo solitario. 

Ci affidiamo al vecchio giogo dei ruoli. Sei, sei… e ancora il vecchio frastuono. 

Sei una persona non amabile. 

Sei ingenuo. 

Sei debole. 

Sei dipendente dall’amore. 

Sei profondo, sei superficiale. 

Come se, sapere chi sei, definire chi sei con matematica certezza, fosse un passepartout per un’esistenza, finalmente, serena. 

Nulla di più lontano dalla verità. Sono tutte cose che fanno il gioco del nostro ego. Peccato non riguardino però, il cammino di guarigione dal dolore di un cuore spezzato. 

I cuori non saranno mai una cosa pratica, finché non ne inventeranno di infrangibili

L’ho imparato quando, a otto anni, vidi per la prima volta Il Mago di Oz.

 

Ho impiegato molto tempo ad accettarlo e sì, mi terrorizza ancora.

Entrare in connessione reale con un altro essere umano e mostrarsi vulnerabili è un atto di profondo coraggio e porta con sé un gigantesco rischio quello cioè, di farci ferire. Ancora.

Al contrario, il sentiero solitario che scegliamo di percorrere per guarire, è in realtà, la strada più facile per sigillare la nostra esistenza, renderla asettica, ermetica. Arida.

 

Quando ci concediamo di metterci in discussione nelle relazioni, perdiamo il controllo delle situazioni da dover fronteggiare, diventiamo una variabile di più complicate reazioni chimiche tra due elementi estranei l’uno all’altra. Spesso, quindi, ci troviamo a dover fronteggiare quelle parti di noi che ancora soffrono e che continuano a torturarci. Parti che, quando siamo al sicuro, nella nostra zona di conforto, nella nostra solitudine, possiamo ignorare.

 

Quello che non riusciamo a comprendere è che, l’idea che quando il nostro cuore sarà guarito non avremo più bisogno di nessuno, è una bugia. È il trauma del dolore che cerca un’ennesima scorciatoia. È l’ego che cerca di mettere in gabbia il cuore per evitargli altro dolore e, nel farlo, gli impedisce la vita perché, se non siamo a questo mondo per creare relazioni, per sentire di appartenere a un altro, allora perché mai siamo venuti?

 

Tuttavia, per essere davvero consapevoli di noi stessi e accettare il nostro primitivo bisogno di comunione con l’altro, di essere accettati, dobbiamo prima imparare ad attraversare le nostre ombre, a liberarci dell’orgoglio che ci “difende” dagli altri, ma che allo stesso tempo, ci impedisce di essere visti per quello che, in realtà, siamo. Nel nucleo più profondo.

 

Nessun uomo è un’isola. Questo luogo comune, è una delle poche verità assolute. 

Non siamo lupi solitari. Non esiste nulla del genere. I lupi sono animali da branco. 

La vita che ci è dato vivere, non deve essere un’esperienza di isolamento e disconnessione dal resto del mondo perché, di questo mondo, siamo parte integrante con tutti gli altri.

Non siamo qui per imparare l’arte egO-ista del non ho bisogno di niente e di nessuno. Al contrario, siamo qui per donarci senza fine e lasciare il meglio di noi al mondo.

 

Per questo, quando sentiamo che chiudere il cuore è l’unica strada possibile per sopravvivere al dolore, dobbiamo fare un atto eroico e ricordarci che quel dolore non è solo nostro.

È di chi ce lo ha inflitto, è di chi ci ama e ci vede star male, è nostro che lo sentiamo cibarsi di noi da dentro ed è, di tutti quelli che soffrono. Non siamo soli. Mai. Neppure nel dolore.

Dobbiamo fare gioco di forza su noi stessi e ricordarci che, quel dolore, non ci definisce e di certo non segna la fine della nostra vita. Al massimo, ne traccia un nuovo inizio. Più consapevole.

 

 La verità, è che cresciamo non con gli anni, ma con i danni.

 

martedì 21 luglio 2020

Sulla disponibilità emotiva e l'amore di sé

Hai fatto tutto il percorso, avanti e indietro, milioni di volte.
Hai analizzato, sviscerato e ripetuto ogni parola detta, ogni sospiro, ogni porta in faccia. Hai dato risposte a domande che lui non si è neppure mai posto e sei ancora qui.
Sei encomiabile? Sei determinata? O, forse, sei ancora una volta vittima di te stessa e delle tue strategie?
Non puoi amare un uomo che non è emotivamente pronto all’amore. Non puoi perché, non importa cosa farai, quante lune gli porterai, quanti pianeti farai ruotare intorno alla sua fragile esistenza, sarai sempre sola in quella relazione. Sarà sempre una strada a senso unico.
Guarda, invece, dentro il tuo cuore, senza vergogna, senza paura, sii coraggiosa, sii tu la tua salvatrice e poniti l’unica domanda che importa farsi:

“Quale parte di me vuole così disperatamente quest’uomo”?
E troverai la stessa risposta che eviti così accuratamente. È la parte di te ferita. La bambina impertinente che piange e ha paura di essere abbandonata. Ancora.
È tutto lì. È la paura di non essere scelta che prende il sopravvento e ti incatena a un sentimento che non ti fa vivere. L’amore che nutri per quest’uomo è tutto lì. Non è amore, è altro. Per certi versi è molto più forte dell’amore. È il demone con cui devi fare i conti. I guerrieri, però, i demoni li ammazzano e poi ballano sulle loro tombe, sorella mia.

La relazione con te stessa, è l’unica relazione alla quale vale la pena non smettere mai di lavorare.
Hai il dovere verso te stessa e verso la tua vita di essere una donna integra.
Le nostre emozioni sono spaventosamente potenti, possono stordirci. Di fatto, lo fanno. È importante imparare a non lasciare che guidino le nostre esistenze. È importante imparare ad osservarle, guardarle da vicino sotto un microscopio e catalogarle in sentimenti, ma è ancora più importante ricordare che i sentimenti, sono emozioni, non fatti. Sono responsi emozionali alle circostanze della nostra esistenza. Non importa quanto sembrino reali, dappertutto nel tuo corpo. Tu guardali e ricordati che la sensazione che stai sentendo, probabilmente, viene dal passato che non hai metabolizzato, dall’incertezza del futuro, forse da errate interpretazioni comunicative col soggetto coinvolto, ma sono emozioni. Non sono fatti.
Il grosso del lavoro è capire come reagire alle emozioni e come rimanere fermi nella consapevolezza di sé.
Non vali di meno di quel che sei perché lui non ti ama.
Esci da questa paranoia. Non sei quel che vede lui. Infatti, con ogni probabilità, lui non ti vede. Vede solo sé stesso ed è nel pieno diritto di farlo.
Spesso finiamo per ingannare noi stessi per non sentire il disagio.
Per non sentire che siamo stati di nuovo abbandonati, che non siamo amati, che non siamo all’altezza, decidiamo di non sentire affatto e ci abbarbichiamo in relazioni a senso unico che ci faranno solo più male, perché quel vuoto, quell’assenza di amore, quel non sentire supporto in un abbraccio, in uno sguardo, torneranno a ricordarti che sei a rincorrere le farfalle. Non sei nella relazione che meriti. Non sei nella relazione che vuoi.

Se un uomo ti dice che non può impegnarsi, credigli.
Se un uomo ti dice che non ti ama, credigli.
Se un uomo ti dice che può fare a meno di te, credigli.

Non è necessariamente vero che voglia ferirti, forse sta provando ad essere onesto.
Non è necessariamente vero che voglia ferirti, forse sta solo facendo i conti col suo dolore. È compito suo. Non tuo. Tutto quello che avevi, anche di più, glielo hai già dato. È nascosto da qualche parte dentro lui. Forse lo troverà, più verosimilmente, non lo cercherà più e lo dimenticherà.

Tuttavia la verità è che fino a quando quest’uomo non farà un vero lavoro di crescita interiore, di risoluzione seria dei propri traumi, le sue azioni saranno sempre egoiste e prive di qualsiasi premura nei tuoi riguardi.

È tuo compito, di nessun altro, nutrire la parte di te che ha bisogno di amore.
Sii il tuo lupo, sii saggia, sii tua madre e ricorda che essere amata è un tuo diritto. Ricorda che l’amore è un luogo sicuro, non un posto di segnali caotici dove ogni azione può essere tutto ed il suo contrario. Se devi interpretare quel che ti dice, vuol dire che non ti sta dicendo nulla.

A volte la persona che desideri di più nella tua vita, è l’unica dalla quale devi stare alla larga.
La chiamano vita, amica e, a volte, fa davvero male da morire.

giovedì 28 maggio 2020

Dell'amore e l'uso dei pronomi personali.

Il problema dell’amore è, che da queste parti, non conta il primo pronome personale singolare.
L’amore non funziona con l’ego. Non ha nulla a che vedere con l’io. L’amore non dovrebbe mai dire: “io ti amo”. L’amore, al limite, dice “TI amo”. Vedi? Tutta un'altra storia. È tutto verso l’altro.
Ecco, al netto della gioia del dare senza chiedere di ricevere, bisogna, comunque, fare i conti con l’altro.
L’altro potrebbe non volere essere amato da te. L’altro potrebbe non condividere il tuo modo di amare, quindi, potrebbe non capire fino in fondo chi sei. L’altro, potrebbe, più semplicemente, non essere lì nel modo in cui ti aspetti e desideri, nel momento in cui ti dimostri stanca, fragile. Vera.


Può accadere anche a te di amare qualcuno e doverlo, comunque, lasciare andare.
L’altro problema con l’amore è, che per definizione, non si comanda. Per questo capita a tutte noi, almeno una volta, di amare qualcuno, volerlo con forza nella nostra vita pur sapendo di non doverlo volere.
Lo so, suona come un gioco di parole e, invece, è un gioco del cuore.

Come reagisci a questo tipo di amore, però, definisce il tuo grado di amore verso te stessa.
Puoi decidere di restare. Prendere quel che viene. Affibbiargli tutta l’autenticità di cui sei capace e zittire la parte di te che sa che stai accettando meno di quanto meriti, oppure, puoi scegliere di lasciarlo andare.
Questo, non significa smettere di amarlo.
Significa capire nel profondo più silenzioso di te stessa, che lasciarlo andare e sentire il dolore della sua reale mancanza, è una dichiarazione di amor proprio. Significa dire a te stessa –e a nessun altro- che sei pronta per una relazione umana autentica e sana, fatta di onestà, connessione profonda e intimità. In una parola: crescita. Significa voler crescere CON qualcuno.
Puoi decidere di restare, nessuno ha il diritto di dirti di andare. Ho sempre creduto che la vita sia fatta di scelte in cui il caso gioca un ruolo molto, molto marginale. Mi piace l’idea di scegliere, ma bisogna dichiarare a sé stessi la scelta fatta. Sempre. C’è però una cosa che non devi dimenticare. Nessuno dovrebbe mai guadagnarsi o elemosinare l’amore. Neppure tu.

Ti amo. Ricordi? L’amore non riconosce l’ego.
L’amore cui viene messo un prezzo, qualsiasi esso sia: dal morderti la lingua una volta, al lusingare l’altro, al volare basso per non metterlo in imbarazzo, passando per il non parlare di te, delle tue emozioni, perché Dio ti perdoni TU SENTI, quindi, sei una matta nevrotica, che probabilmente, ha il ciclo irregolare, porta solo e unicamente, a credere che l’amore sia una specie di giro infinito sulle montagne russe. Un continuo inseguimento, oggi sei cacciatore, domani sei preda. Non è così. Ripeti con me. Non è così.
È seguendo questa via, che alla fine, addomestichiamo il nostro cuore e ci fermiamo in quelle relazioni, che sembrano giuste e, invece, sono ben al di sotto dello standard che chiunque dovrebbe accettare per sé.
Sono quelle relazioni tossiche, nelle quali vediamo annaspare una nostra amica da anni, pensando ma come fa a non capirlo? Bé, guardati un po', ora! Come fai a non capirlo?

Amare un altro essere umano, non deve e non può significare non amare te stessa in prima istanza. Anzi, è proprio il contrario. Frida Kahlo ha detto: “Innamorati di te stessa, della vita e dopo di chi vuoi”.
Non esistono, credo io, parole più giuste.

Sei tu il vero amore della tua vita e nessun altro.
È con te stessa la vera relazione d’amore, quella che ti accompagnerà fino al tuo ultimo respiro su questa Terra.
È questa la relazione d’amore che deve riuscire a rimarginare le tue ferite e il tuo universo interiore.
È a te stessa e, solo a te stessa, che devi fiducia incondizionata.
È sempre e solo a te stessa, che devi cantare canzoni d’amore e ricordare che sei su questo Pianeta per essere amata.
È a te stessa, che è giusto insegnare, a costruire confini netti nelle relazioni umane, che non devi valicare. MAI.
È a te, che devi insegnare a pretendere il rispetto che ti è dovuto, l’onestà che meriti e la stessa, inesauribile, voglia di comunicare, che regali agli altri.

Va bene continuare ad amarlo, perché quell’amore che sei capace di regalare ad un altro essere umano, ti insegnerà ad amare te stessa.
Va bene se pensavi di essere andata avanti e, ancora una volta scopri, di essere qui dove ti eri detta di aver smesso di tornare, tanto tempo fa.

Probabilmente lo amerai per sempre, o forse, un giorno smetterai. Che importanza ha?
Guarire e crescere, sono processi che richiedono un tempo imponderabile.
Lascialo andare.
Lascialo nuotare nel suo mare.
Lascialo andare,
Guardalo, mentre avanza nella sua vita senza te e sii felice per lui.
Per te.

Regalagli il buono che c'è in te e lascialo andare così:

“Che tu possa continuare ad essere in pace.
Che tu possa essere felice.
Che tu possa accogliere la vita che arriverà senza di me.
Che tu possa crescere nell’amore e nella gentilezza.

Che io possa ricordarmi
Della comprensione e di essere
Gentile con ciò che mi circonda__
Qui e ora.
Che io possa essere felice.
Che possa essere pronta ad accogliere
Le mie virtù e i miei difetti.
Che io possa accettarmi, profondamente, così come sono.

Che io possa ricordare ogni giorno
Cosa può farmi bene, ora__
Che io possa coltivare e imparare l’amore.

Che il nodo che ci lega possa sciogliersi e vederci liberi l’una dall’altro.
Che io possa guarire dal risentimento di
Non essere amata da te.
E che tu possa lasciare andare la rabbia e il
Fastidio dell’essere ancora amato da me”


Osserva anche tu, amica.
L’amore va. Non aspetta te, non aspetta me.
L’amore è.

domenica 17 maggio 2020

Non è amore. E' altro.

L’ho sempre sentita anche io, l’adrenalina del dover conquistare quell’unico amore che sembri non poter avere, ma ho una notizia per te.

Se non è corrisposto, non è amore. È altro. Puoi scegliere di volere altro, ma devi sapere che è altro. Non puoi amare chi non ti ama con la stessa intensità. Non puoi amare chi risponde a un messaggio whatsapp su tre.
No, non è impegnato. No, non sta cercando le parole giuste e no, non hai inviato un messaggio che non richiede risposte.
Ripeti con me: non è amore, è altro.

Le relazioni umane, tutte, sono meccanismi altamente stressanti. Le relazioni amorose, non dovrebbero esserlo. Se già trascorri la giornata a dover combattere in un mondo di ostilità, cinismo, arrivismo, maleducazione e violenza verbale, quando torni a casa la sera, o quando incontri la persona che credi di amare, dovrebbe essere tutto, dannatamente, semplice.
Semplice, che non vuol dire facile.
Semplice, cioè, che richiede impegno, in quanto meccanismo che coinvolge due vite separate, ma non faticoso. Se senti, anche solo per un secondo, che stai facendo fatica, amica scappa.
Non è amore. È altro. Ripeti con me.

Lo so, è eccitante, quando chi ti ha fatto innamorare, si tiene sulla distanza in un instancabile gioco di guardia e ladro.
È una sfida per il nostro ego.
Ti può sembrare di essere un’eroina sbucata dai romanzi delle sorelle Brontë, in realtà, sei in fuga da te stessa, senza nemmeno accorgertene.
È molto più facile lasciarsi andare al gioco, alla sfida del tira e molla, piuttosto che guardare in faccia la possibilità di trovare un amore reale, sano. Zona franca dalle tempeste ormonali dell’adolescenza.

L’essere respinta, ha qualcosa di realmente erotico. Non è forse così?
Un vero è proprio nutrimento, per quella parte del tuo ego che vive la continua sfida del dover dimostrare, che sei quelle giusta.
Sei bella.
Sei in forma.
Sei ben educata.
Sei intelligente.
Sei allegra.
Sei piccina, perché anche quando siamo grandi, siamo educate a ridimensionarci.
Mangi a bocconcini come un uccellino e, se ti portano in giro, fai fare bella figura.
Proprio così. Sei un buon affare.
Lo so. L’ho pensato anche io, di me.

In realtà, la nostra mente, nota subito i segnali. Anzi, più cresciamo, più affiniamo il nostro lupo interno a fiutarli. Il nostro corpo spesso, quasi sempre, invia campanelli d’allarme, ma noi fingiamo di non averli notati.
Hai presente quando accanto a qualcuno non ti senti a tuo agio? Ecco, quello è un campanello di allarme gigante. Sentirsi in soggezione non ha nulla a che fare con l’amore. Invece, tutte noi almeno una volta (ma anche due, tre, sempre) prendiamo quella soggezione e iniziamo a proiettarvi cose che inventiamo di sana pianta.
Vediamo se qualcuna di voi si ritrova in una di queste sensazioni:
- È così bello/a, che mi sento in imbarazzo
- È così intelligente, che mi sembra di essere stupida
- È così sicuro/a di sé, che ho timore di parlare. Le poche cose che pensavo di sapere, mi pare di averle già disimparate.

Tutto sbagliato. La maggior parte delle volte, quel super individuo, non è altro che un bambino/a capriccioso/a e insicuro/a, che evita l’intimità come fosse kryptonite, perché sa di non saperla gestire.

Ecco, quando sei lì a contemplare il tuo super amore, sei già ad un punto di non ritorno. Ci sono stata. Lo so bene. Hai già dimenticato chi sei. Una donna bella, intelligente, sicura di sé, totalmente capace di provvedere alla sua felicità, senza doverla demandare a nessuno.

A quel punto, l’eccitazione iniziale del dover dimostrare a te stessa che sei la migliore scelta possibile, ha già prosciugato la tua energia e la tua anima su più livelli e, paradossalmente, dalla migliore scelta possibile, finisci per diventare la peggiore.

Il punto, però, è proprio quello. L’amore non si sceglie, l’amore capita. Quando poi capita, si deve essere abbastanza fortunati da comprenderlo nello stesso momento e, abbastanza maturi ed altruisti, da decidere di coltivarlo.

Abbandonarti ad una relazione che ti mette continuamente in discussione, che non ti onora e non ti custodisce come fossi il più inestimabile dei tesori, significa mancare di rispetto solo a te stessa.

Restare in una relazione nella quale sei invitata a fare i conti con le tue paure, con le tue insicurezze, e sì, anche con le tue gelosie da sola, è sbagliato.

Non siamo sempre al meglio. Non è forse vero? Quante volte siamo a spasso per il mondo come la peggiore versione di noi stesse? Ecco, se proprio dovessi osare un consiglio, -posto che non credo ai consigli perché la vita è l’unica a titolata a darne-, sarebbe: scegli chi ti ama al peggio, perché alla fine della giornata, tutti abbiamo bisogno di qualcuno che stia dalla nostra parte.
Qualcuno che faccia il tifo per noi. Qualcuno che tratti la relazione con noi, come qualcosa di puro e sacro.

Davvero amica, non hai bisogno di qualcun altro che scateni, ancora una volta, le tue insicurezze trattandoti come un pensiero che viene poi… dopo.
Dopo il lavoro, dopo lo sport, dopo gli amici, dopo le sue passioni. In fondo alla sua lista.

Certo, non è facile. Quando sei cresciuta a pane e Mr Darcy potrà sembrare quasi innaturale cambiare schema relazionale. Noioso. Che genere di uomo (o di donna, se ne ami una) è mai questo? Uno che ti guarda dritta in faccia, ascoltando con piacere quello che hai da dire, senza andare in brodo di giuggiole al suono della sua stessa voce? Una figura mitologica.

Restare accanto a qualcuno a cui sai di piacere perché glielo leggi in volto, anzi, perché te lo dice senza tanti giri di parole, per quelle come noi, è un atto di fede. Lo so. Restare quando non senti il cuore avvampare, quando non percepisci l’adrenalina della sfida.
Il cuore che prepara il grilletto e poi boom, tutto intorno macerie.
Tu prova a restare, amica. Prova a rompere gli schemi, a guardare a te stessa e alla tua vita, da un’altra prospettiva.
Prova a guarire le ferite delle tue insicurezze, a farti dono di un amore sano.
Perdonati per essere rimasta in relazioni che non erano all’altezza di ciò che meriti e, volta le spalle, ad ogni singolo luogo in cui non sei felice.
Non consentirti mai più di scendere a compromessi con te stessa.
Amati alla follia.
Ricorda chi sei: un essere umano unico.
Ricorda che il tuo tempo è prezioso e, la tua compagnia, un privilegio.
Lascia pure credere ai più che sei complicata e fa dono del tuo splendore a chi, invece, non aspetta che vederti brillare.
Splendi, amica, tu splendi e l’amore arriverà.

sabato 2 maggio 2020

Se la dea Kali fosse vissuta nel 2020

Ho quest’amica che è bellissima. Lei lo sa, non è di quelle che se ne va in giro senza la minima idea del fascino magnetico che ha sulle persone. In fondo, se lo sente dire da una vita e, nei corsi e ricorsi della sua esistenza, alla fine, deve esserle entrato in testa.
Non è la tipica bellezza, per questo è bellissima.
La sua statura, è la parabola della sua vita. Giuro.
È alta, ma non troppo, quindi, come il nero, sta bene su tutto.
Accade anche che sia molto intelligente. Ha un cervello allegro, che non cede alla noia. Ama leggere, ama imparare e ama ridere.
Ha una conoscenza enciclopedica della musica e, ogni giorno, mi invia svariate dediche musicali su whatsapp. Robe serie. Pezzi da intenditori. Prove provate della profondità della sua anima. Di quelle dediche che ti fanno sentire che dall’altra parte del telefono c’è un essere umano che ha davvero capito TU chi sei. Di quelle dediche, che non sarebbe bello se, invece di lei, te le facesse un uomo? Eh, lo so che lo pensate. Io no. Io sono proprio felice, che me le faccia lei e non un uomo. Questo, è un passo che sono fiera di aver compiuto.
Le piace il cinema d’autore.
Le piace la birra.
Le piace il vino.
È un’estimatrice di gin.
Ama la moda. Non la segue, di norma la fa.
È dolce, è buona, ama la natura, ama l’arte ed infatti, fa l’artista, ma non solo.
Insomma, una che la metti su meetic e dopo un’ora è già piena appuntamenti.
Non sto esagerando è proprio così, eppure, è single. Ti ci rivedi?
Questo, di per sé, non è un problema. Essere single è una condizione transitoria nella vita di un essere umano. Quando invece non lo è, nasce l’esigenza di domandarsi perché. Se lo domandano tutti e, se vi dicono che non lo fanno, stanno mentendo. Alcuni, dicono che sono single per scelta. La questione “scelta” è un po’ delicata. Ve la butto giù semplice: puoi scegliere di rimanere single fintanto che incontri persone che non ti prendono il cuore. Dopo, non è una scelta. Se, quindi, incontri uno/a che ti piace da morire e la persona in questione non corrisponde, oppure, è già impegnata, allora non è una scelta. Almeno, non tua. Quindi, la cosa della scelta non regge. Nessun uomo è un’isola e, mai come durante questa assurda realtà parallela che stiamo vivendo, credo che ci si possa dire tutti d’accordo.
Quello, che della mia amica mi spaventa e mi ferisce, è la cognizione che ha di sé stessa.
La stessa orribile, limitatissima e alquanto condizionata idea, che ho avuto, a lungo, io di me stessa.
La medesima, forse, che hai tu di te.
L’idea che abbiamo un po’ tutte di noi stesse. Il confine è, come sempre, sulla consapevolezza. Alcune di noi ne hanno preso coscienza, altre no.
L’altra notte, la mia amica, mi ha inviato un messaggio nel quale diceva di aver capito di non essere capace di amare. Ha usato proprio questo termine e, mi ha colpita. Ha detto di avere la certezza, di non essere fedele nemmeno a sé stessa, tanto che, ormai, è semplice per lei, intuire che tipo di donna esista nell'ideale del maschio che frequenta e trasformarsi in lei. Fino a quando poi, inesorabilmente, la sua vera natura riemerge. Ha detto di sentirsi la dea Kali (per chi non la conoscesse googlate pure. Spoiler: è la stronza di turno, pura energia distruttiva sposa di Siva (si legge Shiva ndr). Per la serie, puoi anche essere dea, ma sempre e comunque sposa di qualcuno).
Chiudeva il messaggio chiedendomi è così orribile?
L’ho letto svariate volte prima di rispondere. Non perché non sapessi cosa dirle, ma perché la risposta racchiudeva in sé tante altre risposte che, come i cerchi nell’acqua, sono riaffiorati nella mia mente.
Primo tra tutti. Conoscete Siva? Se non lo conoscete, vi dico solo quattro parole: DIO DEI CINQUE ELEMENTI, poi sì, è collerico e come molti uomini può apparire un po’ confuso. Egli, infatti, è forza distruttiva e rigenerativa, asceta perfetto e sensuale tentatore e così via. Ora, ciò detto, c’è qualche uomo di vostra conoscenza che si chiederebbe mai: mi sento un moderno Siva che porta distruzione nella vita della sua Kali? Non disturbatevi a rispondere.
Partendo da questa, che è una battuta, (per i pochi maschietti che ci leggono) ma non troppo, perché ci racconta un po’ delle gigantesche differenze, che corrono tra la nostra forma mentale e la loro, sono andata oltre.

Ho pensato a me stessa, ovviamente, essendo un casino da record in fatto di legami sentimentali. Ho pensato alle mie amiche felicemente sposate, a quelle fidanzate. Ho pensato a quelle che sono finite in relazioni viziate con uomini sposati e, a quelle sposate, che finiscono a letto con uomini single. Ho pensato a mia nonna, come ogni volta, che rifletto sulla mia vita. Mia nonna, era una donna dannatamente moderna, che ha creato mia madre, sulla quale, potrei scrivere per giorni; ho pensato a mia nipote in piena adolescenza, alla nipotina che sta entrando in maniera più che turbolenta nella preadolescenza e a V, a quello che vorrei loro pensassero di sé stesse.
Poi, ho pensato a tutte le donne straordinarie che conosco e, a quelle meravigliose, che devo ancora incontrare. A quanto sia dannatamente stressante, essere la dea Kali in questa giungla amorosa del 2020.

Ecco, a tutte, vorrei dire questo.

Ti voglio bene, per favore prendi le mie parole con la consapevolezza di quel bene.
Personalmente non credo nella capacità e nell’incapacità di amare.
Credo nelle scelte, che possono essere agite o passive.
La prima scelta, che ti auguro di compiere al più presto è: amare te stessa.
Non semplicemente l’immagine di te che rifletti allo specchio e nel mondo. Quella è importante, perché può aiutarti ad avere più fiducia in te stessa, in questo mondo sottosopra, ma non dimenticare, che sei molto più di questo.
Amati. Purtroppo, non basta dirlo. Serve, invece, agirlo.
Serve, piuttosto, ripeterlo a sé stesse come un mantra.
Serve ricordarselo, quando un cretino/a qualunque ti fa la corte e tu (e quel tu non sei solo TU), invece di ricordare ad entrambi chi sei, ti lasci abbindolare il cuore. Ancora.
Serve esercitarsi, in piedi davanti allo specchio. Guardati e sussurra alla tua immagine le due parole che vuoi sentire dire “Ti amo”.
Quando portavo V a fare shopping da piccina, lei provava tutti i vestiti e, facendo una pirouette allo specchio, si diceva SO’ BE LLI SSI MAAAA. Ecco, quello è l’entusiasmo giusto.
Serve sedersi nel silenzio e domandarsi: chi sono?
Sono una donna, una madre, una figlia, una nipote. Sono una zingara, una che non conosce quiete. Sono una moglie, una fidanzata. Sono una scrittrice, una tatuatrice, una dirigente, una studentessa, un’insegnante, una pittrice, una barista, un’estetista, una cuoca. Sono un’amica. Sono una che a cui piace fare sesso, sono una alla quale non interessa il sesso. Sono una a cui piacciono le donne, una a cui piacciono gli uomini. Prenditi tutta la libertà del mondo per conoscerti. Le risposte sono solo nel tuo cuore e devi essere disposta a guardare dentro te per un bel po’. A volte, arrivano dopo anni, ma arrivano sempre.
Solo quando avrai amato te stessa, ti potrà essere facile amare l’altro. Diverso da te.
E, quando lo farai, ricorda lo stesso esercizio: chi è questa persona che mi sta di fronte?
Cosa mi ha fatta innamorare? Cosa mi allontana? E non dimenticare, che entrambi state vivendo ed entrambi, dovete compiere scelte. Ogni giorno.
Concedi a te stessa il lusso del tempo di amare e di provare. Accetta che la perfezione non esiste: é una storiella che ci raccontiamo, solo per poterci poi lamentare con noi stesse, di non avere avuto fortuna. Neppure questa volta.

Guardala questa vita che cerca di sfuggirti via e saltale al collo.
Siamo donne, siamo lupi e siamo meravigliose.
M.

domenica 26 aprile 2020

Sui messaggi archiviati della chat di whatsapp e la vita

Ho imparato che le persone non le puoi archiviare come con le chat di whatsapp.
Non basta metterle da parte, come con i messaggi che scegliamo di non leggere.
Quei messaggi sono lì. Il nostro potere, semmai, è tutto insito nel non leggerli ancora e ancora, tranne poi, andare inevitabilmente a rileggerli, così che ti viene da chiederti a cosa sia servito archiviarli. Non so la vostra, ma la mia chat di whatsapp dei messaggi archiviati, è direttamente proporzionale, alla lista di rapporti che cerco di chiudere nella vita reale.
Ecco, il problema con i messaggi archiviati è, appunto, che sono archiviati. Negati alla vista. Nascosti. Retrocessi. Infamati per certi versi ed è lì, dove non si può, che la mente continua ad andare. Tranquilli, non è che noi non siamo capaci di trattenere il dito da cliccare su chat archiviate. Non è una questione di forza di volontà. È il cervello umano. Funziona così. Non è possibile spegnerlo. Impossibile azzerare il continuum dei suoi pensieri. Per alcuni, funziona la distrazione. Decidere razionalmente di non pensare a ciò che ti provoca timore, disagio, dolore. Altri, scuotono fisicamente la testa. Altri ancora si lanciano in organizzazioni certosine di folli orari di lavoro, alternati a turni in palestra, pulizie di primavera in pieno inverno, shopping compulsivo, corsi di cucina, disegno, cucito e canti sciamanaci. Tutto pur di non pensare. Per me, no. È, alquanto, ovvio. Sono una maniaca del controllo e, l’idea di non controllare i miei stessi pensieri, è la mia principale fonte di stress. Sono anche un’egocentrica, come si evincerà da queste poche righe. Una che pensa di potersi sostituire a Dio o a chiunque sia da quelle parti a governare il fato. Ho scoperto nel tempo, che l’unica cosa che funzioni con me è: osservare i miei pensieri. Senza giudicarli. Fingendo che non siano nemmeno partoriti dalla mia mente, ma siano, invece, una qualche forma di vita indipendente da me. Non mi interessa spiegarli, mi interessa osservarli.
Con le persone che mi feriscono, con quelle che ferisco, con quelle che archivierei e con quelle che, in effetti, archivio mi impegno a fare lo stesso.
Devo guardarle andar via. Fissare nella mia mente le sagome delle loro spalle e lavorare da dentro. Ricordare, ogni volta, come siamo arrivati a dirci addio e far sì, che quell’addio, resti tale.
Almeno dentro me.
Dico addio infinite volte dentro me. Raramente lo dico di persona. Tuttavia, quando dentro me scatta, è impossibile non notarlo. Non credo sia utile palesarlo. Fa solo più male. Le persone, quando si sentono dire addio, cercano di correre ai ripari senza capire che è già troppo tardi. Quando la parola sboccia dentro te, è abbastanza perentoria e definitiva, altrimenti diremmo arrivederci, considerato che non siamo spagnoli. Almeno quando è semplice, cerchiamo di non mortificare la nostra meravigliosa lingua.
Come si arrivi a quell’addio conta poco. Dentro me rievoca una condizione di abbandono. L’abbandono, insieme ai miei pensieri abbandonici, è un’altra cosa che non so controllare, una fonte inesauribile di dolore. Per anni, mi sono immersa in quella fonte, in una forma di indolente piacere, fino a quando un giorno in cui, il sole non brillava particolarmente, i punti cardinali non si erano affastellati e la testa ancora era sul mio collo, ho capito quanto tossico fosse quell’atteggiamento. Sono cresciuta, direbbe qualcuno.
È successo che ho capito che il problema dell’abbandono non è solo in chi crede di subirlo quanto, invece, in chi lo agisce. Sempre. Anche, forse soprattutto, quando quella che abbandona, sono io. Questo cambio di prospettiva ha reso possibile dentro me il perdono e mi ha liberata.
Certo, mi provoca ancora un’ira funesta, quel nervo scoperto. Sento l’orgoglio bruciare misto alla presunzione, che mi riconosco e detesto del pensare: “Come osi non amarmi fino allo sfinimento”? Poi però mi fermo. Cerco di placare il mio smisurato ego. Respiro profondamente e osservo. Forse la mia nozione di sfinimento non è come la tua? Forse la mia percezione di me è lontana da quella che hai tu di me? Forse, più verosimilmente, hai deciso di andare via punto e non c’è nulla da fare al riguardo? Ascoltate, la libertà di queste parole.
Non c’è n u l l a da fare. Non c’è un perché. Piantala di cercarlo. Piantala di cercare la felicità dove, ormai è chiaro, non potrai trovarla.
C’è stato un tempo in cui non capivo la frase: la felicità è una scelta. Mi sembrava una corbelleria. Niente di più, niente di meno. Da buona maniaca del controllo, ego riferita e vittima di abbandono (auto diagnosticata e su questo dovremmo discutere perché è sintomatico della vera malattia) mi ero convinta che la felicità fosse una misteriosa condizione permanente, costituita da una serie di indecifrabili variabili. Un eccitante enigma da decifrare. Una specie di gioco dell’oca eterno. In questo interminabile ciclo di avanzamenti e retrocessioni di casella, mi illudevo di dover trovare indizi.
Ho vissuto buona parte della mia vita, convinta intimamente, che la felicità fosse una costruzione fatta coi blocchi della Lego e che, una volta raggiunta, una volta in possesso di tutti i blocchetti necessari, potevi assemblarla a tuo piacimento e poi distruggerla, ma quella felicità restava nelle tue mani.Te l'eri guadagnata. Che abominio! Come se la felicità fosse un premio e non una conditio sine qua non della vita umana.
Immaginate lo stress? Di una vita a passare in rassegna blocchetti di costruzioni inesistenti? Di una vita trascorsa a convincersi che quell’amica, quell’amore, fossero blocchetti di Lego a tua disposizione nel gioco perverso della tua personale ricerca della felicità? Ad ogni amore fallito, correre al successivo, con un nuovo blocchetto colorato, quindi, illudersi di poter ottenere giganti costruzioni, vedere, nuovamente, la struttura barcollare. Un altro giro, un’altra corsa. Sempre col cuore gonfio. Sempre col cuore in affanno. Sempre col cuore alla ricerca. Alla ricerca di cosa?
Immaginate la relativa frustrazione nel constatare, come era ovvio che fosse, che no, nessuno di loro era un blocchetto. Che le persone non sono intercambiabili come le costruzioni e che non è un loro compito rendermi, renderci, felici?
Ho dovuto sentire il peso della responsabilità per la mia esistenza schiacciarmi, per capire, che felice lo ero già. Da sola. Ma l’idea della felicità imperitura, è una perversione tutta squisitamente occidentale. Quando accetteremo che dolore e felicità non sono opposti, ma più semplicemente facce della stessa medaglia, impareremo a fare caso alla felicità.
Ho capito che le persone non le puoi archiviare, le devi lasciare andare e, ho compreso, che per farlo basta smetterla di demandare a loro quello che dovremmo fare noi. Non siamo tazze vuote. Non abbiamo bisogno di essere riempiti da una mano esterna. Dovremmo imparare tutti a bastarci. Suona un po’ qualunquista, lo so. Eppure, è l’unica cosa che davvero mi è chiara.
Non so voi come la vediate. So che l’unica strada per me, è capire. Osservare e domandare a me stessa: chi sono? Non è una risposta della mente quella che cerco. Non ho bisogno di sapere chi sono. Ho bisogno di capire, chi sono. È un lavoro incessante. Un quesito sempre aperto, che abita la parte preponderante della mia mente. Aspetto una risposta dal cuore. Nel frattempo, vivo. Resto nei miei vuoti e li osservo. Scrivo perché è ciò che mi mantiene onesta e attraverso le tempeste.

giovedì 19 marzo 2020

Della Primavera al tempo del Coronavirus

“Sono molto irrequieta quando mi legano allo spazio”.

Alda Merini



Oggi è l’undicesimo giorno di quarantena, non so ancora bene cosa stia accadendo dentro me.
Sono milioni, le notizie più disparate e contradditorie, che mi ronzano nel cervello. Una violenza visiva, di immagini, che sembrano montate da un professionista del cinema di fantascienza e, una violenza verbale, di voci, che urlano parole di terrore, di panico e di odio. Non faccio che chiedermi se non sia, in fondo, giusto quello che sta accadendo. L’unico modo lasciato alla natura per pareggiare i conti e ricominciare.
Sono giorni lunghissimi che volgono al termine in un lampo, io imparo a riprendermi il mio tempo.

Tempo per non sapere più che giorno è.
Tempo per non puntare più la sveglia e accettare che il mio corpo sa meglio delle lancette quando ha finito di riposare.
Tempo per non far niente. Senza bisogno di correre ad occupare quell’unità di tempo rimasta scoperta. Tempo per stare nel vuoto, in silenzio, a scandagliare la vita nuova che la natura mi sta offrendo.
Tempo per capire che la vita conosce sempre la via. Anche quando sembra che non sia così.
Tempo per essere grata di poter guardare la mia bambina crescere, come fossi l’unica spettatrice del più grande spettacolo mai visto prima.
Tempo per ascoltare.

Ascoltare, che non è scontato come sembra.
Ascoltare mia figlia, per davvero, senza impegni che si frappongono tra me, lei e tutte le parole che ha nel cuore (Dio se ne ha tante :) ).
Ascoltare le mie mani impastare, per la prima volta, il cibo che nutre me, mia figlia e, mentre impasto, sentire dal centro perfetto del mio corpo, quella inequivocabile, rasserenante sensazione che ne usciremo più consapevoli, più saggi, in una parola: migliori. Tutti. Sentire tra la farina e l’acqua, una nuova me prendere forma.
Ascoltare i rumori della casa. Raccontano di spazi che non ricordavo più di poter abitare, senza te. Scoprire, invece, che dove non ci sei tu, ci sono ancora io. Il prolungamento di me. Nutrire la certezza che basto a me stessa.
Ascoltare le giornate di vicini, che non sapevo nemmeno di avere. Imparare a riconoscerne la voce, le abitudini, gli orari e i gusti musicali.
Ascoltare le idee che mi sedimentano in testa, si fanno nuove, eccitanti conoscenze di parti di me mai incontrate prima, ma anche di chi sono stata e non voglio più essere, chi sono ora e dove voglio andare.
Ascoltare la forza che mi muove nella vita: l’amore. Amore che la gente non comprende, giudica e, invece, vale sempre la pena vivere.
Ascoltare il mio fiume interno e accettare che va dove vuole andare, scava il suo letto e procede spedito al suo mare. Anni spesi a diventare la migliore versione del personaggio che la vita mi aveva assegnato, anni spesi, poi, a soffrire per la mia incapacità di stare comoda nei panni che mi erano stati dati.
In questi giorni, quindi, ritrovarmi. Scoprire che non me n’ero mai andata, ero solo inabissata nelle acque del mio fiume da dove provavo a chiamarmi invano, ché i suoni del mondo in cui ero stata scaraventata, coprivano la mia stessa voce.
Ascoltare il mio corpo, da sola, sul tappetino.

In questi giorni di quiete, in cui pratico in solitudine, non ascolto nemmeno la musica, ascolto solo il mio respiro, fluire sempre pari. Con uguale intensità entra nei polmoni, li riempie, li espande e, con uguale intensità, il respiro esce, portando via con sé il tempo. Imparo, in questi giorni, a non dare mai più per scontata l’aria, a ringraziare i miei polmoni per essere polmoni che hanno pianto tanto e ora sono più forti di prima.
In quel non tempo che è la mia pratica quotidiana, il mio corpo si svela in tutta la sua sacralità. Muscoli, microscopici filamenti di carne che tengono su un intero scheletro, un’intera esistenza. Mi raccontano chi sono oggi: una donna salda sul suo tappetino e nel mondo.
Mi insegnano che non devo aver paura di essere indipendente e che stare soli si può, senza sentirsi orfani.

È un non tempo, in un non luogo, questo che stiamo vivendo.
Lo avvertono i bambini e gli esercizi commerciali chiusi, le vetrine tristi, che non sanno più brillare.
Lo sanno le strade vuote. Lo sanno i mari, i laghi, i fiumi. Lo sanno i delfini, che per la prima volta, si azzardano a visitare la bellissima Venezia, con i suoi canali e la sempre eterna laguna.
Lo sanno i cinghiali, che non sentendo più il nostro ininterrotto vociare, si avventurano per le strade centrali della bella Sassari.
Lo sanno gli uccelli nei parchi. Lo sa il verde brillante del prato e il l’indaco del cielo di una Primavera, che così bella e accogliente, la ricordo solo da bambina.
La natura si riprende i suoi spazi. La natura si riprende il suo tempo e ci invita a fare lo stesso.

È Primavera.
È tempo di rinascita.
È tempo di spogliarsi di quegli strati, che ci hanno protetti dal lungo inverno. Strati fatti del superfluo.
È tempo questo di disfarsi dei bagagli. Bagagli di informazioni, che sovraccaricano la nostra capacità di concentrazione. Disfarsi della folle idea di dover tutti essere quelli degli -issimi. Bellissimi, intelligentissimi, ricchissimi, sportivissimi, preparatissimi.
È tempo di disfarsi, dell’ingenua e malsana idea, di avere cinquemila amici solo perché, un social network, ce la racconta così.
È tempo di coltivare.
Coltivare il proprio giardino. Quello della mente e quello di casa chi di noi può.
Coltivare la gentilezza che vince sempre sulla grettezza. Coltivare l’amore e coltivare i rapporti umani per cui vale la pena impegnarsi. Gli altri, lasciamoli andare. Non sono destinati a noi.
Coltivare il tempo, lo spazio.
Radicarsi nel qui e nell’ora, sintonizzarsi sulla frequenza del nostro cuore e sentirlo sussurrare

Io sono, io sono, io sono.

È tutto ciò che conta.

Om Shanti, Shanti, Shanti

M.